Gli amori, tendenzialmente, finiscono male. O meglio, dopo l’accensione stupefatta del desiderio, si trasformano nello specchio della solitudine in cui si trova impigliata la maggior parte dell’umanità. Resta però lo spleen del sublime, l’assaggio del cielo, memoria che gli individui custodiscono gelosamente, come promessa di esistenze possibili , da spendersi altrove. È così che il «ragazzo del faro» della scrittrice portoghese Dulce Maria Cardoso, protagonista del primo racconto di Sono tutte storie d’amore (Voland, pp.144, euro 15, traduzione di Daniele Petruccioli, come per tutti gli altri suoi libri) non può coronare il sogno passionale con Doris perché lei viene strappata via da un destino crudele e il suo corpo lambito dalle onde del mare. E separati tragicamente sono anche la vecchia e il cane, costretti a interrompere la loro convivenza imbevuta di miseria quando l’animale si macchia di un inconsapevole crimine per soddisfare la fame della sua padrona. E poi c’è la confessione, in forma di lettera-diario, di un sentimento colmo di contrasti interiori: un delitto allucinato commesso verso una se stessa sgradita («non per vantarmi, ma ci vuole coraggio a uccidere qualcuno. Specialmente quando sai quello che sogna. Tu hai dovuto soltanto morire. Come sempre, ti sei presa la parte più facile»). Infine, arriva una folata di vento soprannaturale quando viene sventata la tragedia durante un picnic di famiglia, in cui la leggerezza rischia di diventare macigno con una morte incombente. Qui, l’amore materno vince sulla realtà.
Maria Dulce Cardoso, classe 1964, ha una scrittura limpida, che spietatamente fruga nelle tasche (psichiche) dei suoi personaggi. D’altronde, in cima alla sua classifica di letture c’è un autore come J. M. Coetzee. Cardoso non fa sconti a nessuno: agra è la vita dell’adolescente Rui nel meraviglioso Il ritorno, amarissima quella ripercorsa in flashback da Violeta, a testa in giù fra le lamiere e in punto di morte per incidente stradale (Le mie condoglianze), impaurita e indicibile quella della famiglia affrescata nel libro Il compleanno.
L’autrice è in Italia, ospite al Salone del libro di Torino, dove incontrerà il pubblico allo spazio Babel, il 21 maggio.

Nei suoi romanzi – anche nei racconti dell’ultimo «Sono tutte storie d’amore» – i personaggi sembrano destinati a una solitudine eterna. Una solitudine inclemente per Violeta, donna obesa trattata come un mostro dal resto della società; malinconica per Rui, che si fa troppe domande sulla propria vita; disperata per il guardiano del faro, che desidera in clandestinità. Come mai sottolinea particolarmente questo aspetto?
Non mi ero mai resa conto, scrivendo, di parlare di personaggi condannati alla solitudine. Tanto meno ho intenzione di condannarceli io. Allo stesso tempo, penso che la cosa più importante non sia quello che scrivo, ma cosa viene poi letto. Perciò, se mi si dice che i miei personaggi sono destinati a una solitudine eterna, in qualche modo lo sono davvero. Non mi stupisce; è naturale che la solitudine oscuri e ombreggi i miei personaggi, lo fa anche con me, con tutti noi. Se mi chiedessero di scegliere una parola per descrivere il XXI secolo, sceglierei «solitudine». Siamo sempre più soli, nonostante abbiamo sempre più modi di comunicare con gli altri. Non credo – come sostengono in molti – che la responsabilità ricada sulla tecnologia.
Siamo più soli perché assumiamo modelli di vita disumani. Di questi tempi e da questa parte del mondo tutto cospira contro una relazione profonda con gli altri: orari di lavoro eccessivi, competizione per i beni materiali, paura degli altri per qualsivoglia ragione, elogio dell’individualismo, l’idea che le relazioni siano irrimediabilmente destinate al fallimento, l’assottigliamento delle esperienze collettive. I bar, i cinema, le funzioni religiose e molto di quanto fungeva da pretesto di incontro, sono sostituiti da forum virtuali e la nostra maniera di comunicare viene formattata sulle esigenze dei social. Ci reinventiamo sempre di fronte agli altri, ma nei social la reinvenzione individuale va ancora più in là: fingiamo noi stessi per corrispondere all’immagine che gli altri esigono da noi o che pensiamo gli altri esigano da noi o ancora che noi esigiamo dagli altri. E questa finzione, ci rende estremamente soli, perché ci porta a confrontarci di continuo con una maschera. Si nasce sempre soli, ma penso che dovrebbe essere un dovere quello di morire meno soli. In nome della felicità. Nostra e altrui.

L’«amore» nei suoi libri somiglia più a un’angoscia esistenziale, un impulso oscuro. Non sembra esserci compassione fra gli umani…
I rapporti fra le persone sono sempre rapporti di potere, di cui l’amore è la forma più benigna. Ecco perché l’amore – o la sua mancanza – è inevitabilmente, in modo ossessivo, l’argomento delle nostre vite, vuoi in forma ansiosa o tranquilla, in quanto passione oscura o piena di luce, per ritrovarci come per perderci. Siamo diventati troppo cinici, perciò quando parliamo d’amore fingiamo che sia una cosa piccola, di cui quasi ci si deve vergognare. Secondo me, invece, è la cosa più importante.

La sua scrittura scorre fluida, spesso senza punteggiatura né maiuscole, ricorda José Saramago…
Il mio stile dipende sempre da quello che scrivo. L’importante è che il linguaggio sia funzionale al racconto. Se nelle cose che scrivo un minimo comune denominatore c’è, sarà molto probabilmente la mia perenne ricerca di un testo che assomigli il più possibile a un pensiero, a una consapevolezza. Ma la punteggiatura e l’intelligibilità del testo mi stanno comunque molto a cuore. Non ho assolutamente niente contro i segni di interpunzione: li uso ogni volta che mi servono.

Lei stessa è una «retornada». Esiste una corrispondenza autobiografica con le vicende di Rui, protagonista de «Il ritorno»? Può dirci qualcosa sulla sua esperienza in Angola e il suo rientro a Lisbona?
Sì, è vero, sono una retornada e questa parola non mi ha mai fatto impressione, benché venga ancor oggi associata alla stigmatizzazione da cui è stata inficiata per le vicende storiche del Portogallo. Il ritorno è un’opera del tutto finzionale, ma dentro ci sono sicuramente anch’io, come ci sono gli avvenimenti storici che ho vissuto. In questo romanzo esiste una corrispondenza fra quanto ho vissuto e quanto vado raccontando, ma la verità è che si parte sempre da elementi autobiografici. So parlare soltanto di me, anche quando non mi riconosco per niente in un mio personaggio.
L’Angola in cui sono cresciuta fino all’età di undici anni non avrebbe dovuto esistere: era una colonia dell’impero portoghese. Eppure lì sono stata felice. Di quella felicità stupefatta possibile solo quando si è bambini. In Africa è tutto immenso, saturo, forte: i colori, lo spazio, gli odori. Smisurato, come nell’infanzia. Ecco perché per me l’Africa è il continente di qualsiasi infanzia, anche per chi non ci è mai stato. Tornare in Portogallo, che avevo lasciato all’età di sei mesi e dove non ero mai rientrata, è stato terribile. Da un momento all’altro, ho perso due Afriche: l’Africa-territorio e l’Africa-infanzia. Ritrovandomi «scaricata» nel Portogallo povero e chiuso del 1975, mi sono trasformata bruscamente da bambina a ragazza.

Torna mai in Angola?
Non ci sono mai tornata. Considero i poteri angolani illegittimi. Non mi riferisco solo a quello politico ma anche economico, e alla promiscuità esistente fra i due. Non posso che considerare illegittimi i poteri al governo di un paese ricchissimo, come l’Angola è, ma in cui ancora si muore di fame. Non voglio andare in un paese del genere, nemmeno come turista; anzi, tantomeno come turista.

Cosa ci può raccontare del Portogallo oggi?
Il Portogallo attraversa un buon momento, nonostante non sia il paradiso che spesso sento proclamare. La verità è che questa coalizione di governo, in cui nessuno credeva, ha funzionato, permettendo una crescita economica. Gli anni dell’interventismo esterno hanno avuto pessimi risultati. L’austerità non è mai una buona soluzione. Come non lo è l’individualismo nazionalista.

Il paesaggio urbano di Lisbona è in rapido cambiamento. Il suo centro è ristrutturato ma scarsamente abitato: pensa sia diventato allettante solo per gli investitori stranieri?
Lisbona è molto cambiata. Gran parte della città si trovava sotto il segno dell’abbandono e del degrado e – bene o male – si è cominciato a ristrutturarla. Il centro storico era vuoto, adesso comincia a ripopolarsi. Certo, molte strutture vivono di turismo, ma è stato questo a rendere possibile la ristrutturazione di tanti edifici. Perdiamo la nostra identità, credo, nella stessa misura in cui l’hanno smarrita altre capitali del mondo. Sono effetti collaterali della globalizzazione, che non comportano solo aspetti negativi. Si sono levate diverse voci contro gli investitori che provengono dall’estero. Mi piace pensare che gli stranieri debbano essere i benvenuti e che spetti alla politica proteggere la città e la nostra identità. La chiusura di molti negozi storici è colpa di una politica economica e culturale assente, non dei privati.

(la traduzione dell’intervista dal portoghese è di Daniele Petruccioli)