La figura dell’imperatore Flavio Claudio Giuliano, celebrato come il Filosofo dai suoi sostenitori e ammiratori, stigmatizzato come l’Apostata dalle fonti tardo-antiche di area cristiana, che lo denigrarono, a partire da Gregorio di Nazianzo, ha sin da subito suscitato reazioni contraddittorie.

Personaggio per eccellenza poliedrico, abile amministratore, prosatore, filosofo, generale e uomo d’azione, fu l’ultima grande voce del politeismo antico e della tradizione della civiltà greco-latina. Se agli occhi dei cristiani rappresentò, all’epoca, poco meno che un anticristo («l’apostata, il drago, l’assiro», nelle arringhe feroci del Nazianzeno), per poi essere assimilato nella memoria storica ai grandi persecutori della nuova fede, per i suoi sostenitori come Libanio, che lo riteneva meritevole di ogni lode, e ancor più per la modernità post-rinascimentale di un Montaigne e per l’illuminismo, fu invece senz’altro un esponente originale, unico e furiosamente positivo della razionalità mediterranea, ancora capace di resistere alla marea montante di un misticismo oscuro, foriero delle più cupe età buie. Non sorprende che una simile figura di imperatore filosofo, eroe di una luminosa mistica razionale votata al governo equilibrato e virtuoso dell’ecumene, si sia trasformato in un personaggio da romanzo, nelle pagine, intrise di psicologismo, di Gore Vidal o di un Luca Desiato.
Sorprende invece come a Giuliano il Filosofo l’editoria abbia finora dedicato, fra gli scrittori antichi, un’attenzione non sempre sistematica. A colmare questa lacuna interviene il monumentale: Giuliano imperatore, Lettere e discorsi (Bompiani, pp. CCCXI-1270, euro 50,00) a cura di Maria Carmen De Vita, prefato da Arnaldo Marcone e pubblicato nella prestigiosa collana «Il pensiero occidentale», nata sotto gli auspici di Giovanni Reale e già diretta da Maria Bettetini.

Complessa, come accennavamo, è la personalità, e per conseguenza l’opera e la ricezione, di Giuliano come autore. L’introduzione articolata di Maria Carmen De Vita rende conto di tutti questi aspetti con estrema limpidezza, nell’apertura di un volume a cui, nel suo complesso, non è troppo esagerato o fuori luogo riferire il connotato di luculento, caro a una certa, forse un po’ attempata, retorica delle accademiche recensioni.

Giuliano è, per riferirsi all’efficace formula di sintesi della stessa curatrice, uno dei pochi personaggi ad aver lasciato una così ampia e profonda testimonianza di sé attraverso le sue opere letterarie, senza tuttavia dissipare gli interrogativi addensatisi attorno alla sua vicenda storica e personale. Per citare la veneranda Notice biografica del Braun, posta a esergo dell’introduzione, a Giuliano sono bastati una vita di trentadue anni e un regno di venti mesi, dal 360 al 363 d.C., per lasciare la più luminosa memoria di sé. Ma tanto fulgore non ha fugato le tenebre, o meglio, ha reso ancora più avvincente e irta di enigmi la ricerca delle chiavi di lettura più opportune a comprendere il senso delle sue pagine.

Giuliano nacque nella famiglia che dominava allora il mondo, la dinastia Flavia dei Costantinidi (da non confondersi, ovviamente, con i Flavii di I secolo). La sua giovinezza fu segnata dalla scomoda condizione di membro di una delle dinastie più segnate da delitti tra consanguinei; in un simile quadro familiare aberrante, non erano interlocutori validi per lui né il brutale fratellastro Gallo, né tantomeno il chiuso e rozzo imperatore Costanzo II. La sorveglianza occhiuta e crudele del vescovo Giorgio di Cappadocia rese il suo confino ancora più difficile da tollerare. Soltanto le risorse della ricca biblioteca vescovile gli alleviarono il peso di quello che di fatto era una gabbia, non dorata, e che per Gallo fu poi solo l’anticamera dell’esecuzione. Fu forse questa doppia, contraddittoria esperienza a indirizzare le inclinazioni del futuro Filosofo e Apostata; sicuramente provocarono il suo crescente allontanamento dal cristianesimo e il suo riavvicinarsi alla tradizione del politeismo, una tendenza incoraggiata dall’incontro con il retore Libanio a Nicomedia. La carriera, la nomina a Cesare delle Gallie, i successi militari contro i barbari e la conseguente invidia di Costanzo II, segnarono la sua repentina ascesa al potere, quando Costanzo pretese di sottrargli risorse militari essenziali alla tenuta del confine del Reno, per destinarle a una inconcludente campagna contro la Persia. Fu quest’ultimo l’episodio che condusse al pronunciamento di Parigi, all’acclamazione di Giuliano come imperator, e a una guerra civile che non si tradusse in un bagno di sangue solo per la morte improvvisa di Costanzo II a Mopsucrene in Cilicia.

La volontà di identificarsi con le glorie della grande tradizione militare antica, condusse Giuliano a una nuova campagna contro i Parti, iniziatasi con un pellegrinaggio da Costantinopoli ad Antiochia nel 362: fu il momento della più accesa attività intellettuale, filosofica e di restaurazione politica e religiosa dell’imperatore, che aveva ormai da tempo rinnegato il cristianesimo, abbracciando la dimensione più esoterica dell’antica tradizione ellenica, legata ai misteri eleusini. All’attività religiosa si unì la preparazione della campagna contro l’impero persiano della dinastia Sasanide: un’impresa militare in grande stile che dal marzo del 363 l’avrebbe visto da principio muoversi sul teatro di guerra con brillanti e vittoriose avanzate, per poi logorarsi di fronte alla guerriglia del nemico. Fu per effetto di una di queste azioni di guerriglia che l’imperatore morì, in circostanze incerte, come ci racconta il suo storico e uomo di fiducia Ammiano Marcellino, il Tacito dell’età tardo-antica. A porre fine alla sua vicenda storica, dando inizio al suo mito nel bene e nel male, furono le stesse circostanze della morte, su cui gli scrittori cristiani avversi, come Gregorio di Nazianzo, evocano l’aura della punizione divina o della follia superba, mentre i sostenitori, come Libanio, suggeriscono la possibilità di un complotto dei cristiani.

Questa è a grandi linee l’evoluzione del personaggio di Giuliano, di cui il saggio introduttivo, vero prolegómenon vecchio stile, segue tappa dopo tappa la duplice dimensione, intellettuale e politico-militare, due componenti inscindibili, sin dal momento dell’apostasia, e della fuga da quella adolescenza, segnata dal confino e dal cristianesimo, che il futuro augusto percepì e stigmatizzò come un’èra di tenebre. Ne emerge il quadro di un intellettuale militante sul soglio imperiale, che la curatrice articola in tre parti, la prima delle quali si incentra sul momento biografico e sulla leggenda, «nera» e colma di invenzioni di martiri fittizi, a opera dei cristiani, dei «galilei», agiografica da parte degli «elleni», cioè dei politeisti e degli intellettuali classicisti.

Sul piano dell’indagine storiografica, il saggio introduttivo provvede a far pulizia della «giulianizzazione» (attribuzione a Giuliano) di tutte le esplosioni popolari anti-cristiane del suo breve regno. La completezza dell’inchiesta filologica sull’autore rende anzi conto della sua tolleranza estrema, organica al disegno politico: quello di un governo dell’equilibrio, modellato sull’esempio dei grandi imperatori del passato, soprattutto il filosofo Marco Aurelio; l’esempio di un governo opposto all’intolleranza fanatica del monoteismo biblico.

L’altro aspetto che la curatrice evidenzia è l’altrettanto rigorosa coerenza del disegno politico a cui Giuliano vuole dar séguito, e che si manifesta perfino nel divieto, ai cristiani, di insegnare le opere degli antichi greci e romani, i cui dèi essi «tengono in spregio». È così che Giuliano, «l’imperatore con le dita macchiate d’inchiostro», concepisce il suo impegno di governo come terapia politica e filosofica mirata contro il fanatismo: era la cura di un Augusto «nato per il bene dello stato e per estirpare i vizi dei tempi», che in origine era solo un giovane schivo e pensoso, in cui «fin da piccolo è entrato dentro un desiderio struggente di possedere libri» (ep. 107 a Ecdicio, prefetto d’Egitto).

La prosa di questo imperatore-filosofo, che vide nella poesia e nella letteratura una pienezza d’esperienza più viva di quella che i sensi colgono per accidente, mostra una grande varietà di dettato, appresa con faticoso esercizio nelle scuole di retorica ed esercitata con un impegno da emulo di Temistio e di Libanio. Se le lettere a corrispondenti sul piano intellettuale e amicale sono connotate da una sintassi agile e da una limpida concretezza di espressione, tanto da costituire uno degli esempi più alti dell’epistolografia greca, le missive di carattere politico (in specie quelle legate all’attività fervida del periodo di Antiochia) e soprattutto i panegirici, attingono a toni di grande solennità, mentre scritti come quello dedicato Alla madre degli dèi, toccano le vette dell’inno in prosa, e opere come il Misopogone, ossia L’odiatore della barba, sono un misto fra satira e arguzia sofistica.

La curatrice rende questa varietà di dettato con un agile e gradevole tono di medietà di prosa colta, arguta, da elzeviro, restituendo in una resa italiana fluente e chiara l’ethos, il carattere, dell’intellettuale militante a cui accennavamo, fra ironia e passione ideale: la voce attuale di un uomo di pensiero alla fine della storia. Segue la traduzione (sempre con testo greco a fronte) un ricco commento, il più attento per un lettore non tecnico, ma anche per un lettore specialistico che voglia possedere, in traduzione, l’edizione più completa delle opere di Giuliano oggi disponibile.