C’è una generazione che ha fatto, per così dire, il ’68 al contrario. Sono i giovani che sono partiti verso l’Africa (principalmente) alla fine degli anni 70: hanno contestato il sistema impegnandosi per i poveri. Da questo «impegno» non sono mai usciti. Mentre molti dei leader storici di quegli anni sono diventati establishment (pensate a Giuliano Ferrara), Gino Filippini, Fausto Lonati, Giuseppe Marini, solo per citarne alcuni, sono rimasti fedeli all’impegno. C’è chi si è fermato in Africa tutta la vita, chi ha scelto di lavorare nel nord del mondo ritenendo che le cause principali dell’ineguaglianza siano nel nostro emisfero, ma nessuno è in business class.

COME RACCONTA Gino Filippini in Africa Sognare oltre l’emergenza (edizioni Paoline) «il clima di quegli anni che ha portato ai primi impegni era di euforia, di grande effervescenza e rinnovamento. Si viveva con un grande entusiasmo, una grossissima gioia, sicuramente sproporzionata, molto naïve. Pensavamo di andare a risolvere i problemi del Terzo mondo e della fame, sull’ondata della generosità di chi dal Nord dava aiuti e andava con soldi, tecniche, fede, pensavamo che avremmo cambiato la situazione nel giro di un po’ di tempo.
Questo clima di grande entusiasmo era reale e ha portato, in quei primi anni, a una certa dimensione di protagonismo, di trionfalismo che era proprio di quel tempo. Un’epoca che poi si è rannuvolata. Il che ha fatto spazio a un’altra fase, non solo del volontariato, ma più generale, che era quella di messa in discussione di tutto».

SONO SESSANTOTTINI che hanno rivolto lo sguardo all’altro, come racconta Antonio Benci ne Il prossimo lontano (uscito con Unicopli), non solo contro, ma soprattutto per. Centinaia di giovani partiti soprattutto dalle province di Bergamo e Brescia che hanno cercato di dare forma agli ideali. Dopo i primi anni pionieristici subiscono un iniziale shock culturale: l’aiuto necessario non è quello che si erano immaginati. Si procede nel mettere tutto in discussione anche l’idea stessa di aiuto, infatti, dopo le prime esperienze arrivano i primi dubbi soprattutto si teme di essere «volontari organici alle classi dirigenti»: sostegno (anche se indiretto) al potere dei Paesi in cui sono inseriti. Temono di offrire agli sfruttati una possibilità minima che renda più sopportabile il loro sfruttamento. Non a caso la paura è di essere degli erodiani cioè quelli che fanno il gioco dei dominatori, degli occupanti, come Erode con l’Impero romano. Domande sane che non portano ad un ritiro, ma a una riflessione sulle cause della povertà e non solo sugli effetti (oggi si direbbe sull’impatto). I loro leaders sono l’Abbé Pierre, Follereau, Câmara.

«NOI – DICEVA FOLLEREAU – i giovani di oggi, siamo i responsabili del mondo del 2000. I Grandi ci dicono di conquistare; noi, invece, noi, vogliamo amare; i Grandi ci insegnano ad ammassare; noi, noi vogliamo donare, ci è stata finora celata l’esistenza di un mondo che ha fame, che soffre senza sapere fin dove né perché. Noi vogliamo essere utili ai poveri del mondo. Noi non vogliamo più, fatti grandi, fare la guerra. Noi stiamo bene, non ci manca nulla, mangiamo quando sentiamo appetito e dormiamo nel nostro letto, mentre 400 milioni di ragazzi nel mondo vivono nella morsa di grandi sofferenze. Noi, i giovani di oggi, ci sentiamo responsabili del mondo del 2000».

IL LORO IMPEGNO non sarà di una stagione, né un fatto di gioventù, ma un dovere che durerà tutto l’arco della vita. Sono giovani che ricordano da vicino l’albero di Iroko. E come l’albero di iroko, il più grande delle foreste dell’Africa occidentale: «puoi raccogliere tutti i semi di iroko del mondo, puoi piantarli dove vuoi, fare una buca, ma sarà inutile», scrive Chinua Achebe (Non più tranquilli, La Nave di Teseo) «è il grande albero a decidere dove crescere, e noi lo troviamo lì. Lo stesso succedere per la grandezza degli uomini» che hanno fatto il sessantotto tutta la vita, per cambiare il mondo senza prendere il potere.