Chi l’avrebbe mai detto che un giorno Fi e M5S si sarebbero trovati a strepitare insieme contro l’immunità parlamentare estesa ai senatori? All’origine della singolare “alleanza” c’è il pasticcio combinato dal governo sull’immunità dei futuri senatori. Dietro la vicenda, in realtà, non c’è nessun turpe mercato, nessun calcolo sopraffino: solo la faciloneria di un governo che, dovendo correre perché questo chiede il mercato politico, non ha tempo per pensare a quello che fa e dunque, senza neppure accorgersene, ha dato parere positivo all’emendamento dei relatori che appunto garantisce l’immunità agli inquilini di palazzo Madama. Poi, viste le proteste, ha pensato bene di scaricare la responsabilità sulla relatrice Anna Finocchiaro, che ha restituito il favore dicendosi «disgustata per lo scaricabarile». Il governo, puntualizza, era a conoscenza di tutti gli emendamenti. Poi, prosegue, tutti i gruppi avevano avanzato proposte in questo senso. Insomma, ipocriti anzi bugiardelli.

Identica argomentazione impugna il senatore del Pd Russo: su Facebook rinfaccia al capogruppo azzurro Romani e ai pentastellati l’aver presentato emendamenti a favore di quella stessa immunità oggi denunciata come scempio. Immediate, e per la verità del tutto giustificate, le repliche. «Dispiace che Russo fraintenda o voglia fraintendere. Il complesso dei nostri emendamenti disegna un Senato eletto dai cittadini. L’immunità è fuori luogo se è invece mera espressione delle istituzioni locali», contrattacca Romani. L’M5S è più ruvido: «Russo e Finocchiaro giocano alle tre cartine con i nostri emendamenti, che difendevano il ruolo elettivo del Senato». Hanno ragione loro. In commissione di immunità si era in effetti discusso parecchio, ma sempre nella prospettiva di un Senato elettivo, certo non in quella di un salvacondotto per amministratori locali.

A questo punto però il guaio è fatto e bisogna trovare un modo per uscirne. La via più semplice, e la più coerente con le dichiarazioni della ministra Boschi, sarebbe un emendamento del governo per sopprimere l’immunità. Quell’emendamento non c’è né arriverà nei prossimi giorni. Renzi ha deciso che la palla deve giocarsela il Parlamento. «Sarà il Senato a decidere senza pregiudizi», annuncia stentoreo il ministro Lupi, e la voce del Pd è quella del senatore Marcucci: «Sul tema è sovrana l’aula». Solo che l’aula deve vedersela con le barricate dell’Ncd, che vuole a tutti i costi la parità di trattamento fra deputati eletti e senatori di fatto nominati, e soprattutto con il parere dei costituzionalisti, che sulla possibilità di togliere lo scudo ai senatori lasciandolo ai deputati avanzano un diluvio di dubbi.

Una soluzione ancora non si è trovata. Le ipotesi principali sono due: una sorta di limitazione della “protezione” alle sole attività svolte dai senatori in veste di parlamentari (e non anche di amministratori locali) oppure, più probabilmente, la delega delle decisioni sulla sorte dei senatori inquisiti a una «istituzione terza», cioè alla Corte costituzionale. A lanciare ufficialmente l’idea è la stessa Anna Finocchiaro, ma identica posizione aveva assunto Vannino Chiti. Cuperlo rilancia entusiasta: «L’idea di un giudice terzo mi pare convincente. Forse si sta facendo una tempesta in un bicchier d’acqua».

Che la soluzione del rebus sia davvero quella proposta dalla presidente della commissione Affari costituzionali non è ancora certo, ma sulla portata della “tempesta” Cuperlo può scommettere a colpo sicuro. La riforma del Senato non si è fermata di fronte a pasticci enormi: non sarà neppure il nodo dell’immunità a fermarla. La realtà è che, salvo ripensamenti della Lega che automaticamente risveglierebbero gli umori battaglieri di Fi, la partita del Senato è chiusa che più chiusa non si può.

Tanto meno varrà a riaprirla l’incontro di domani tra Renzi e la delegazione a 5 stelle (peralatro non ancora definita). Nella pratica quel vertice non cambierà nulla: determinerà solo rapporti di forza ancor più favorevoli al premier. Il solo capitolo in discussione potrebbe riguardare la legge elettorale e il ripristino delle preferenze, ma quella porta il governo la ha già sprangata. Perché prima viene il dialogo con Fi, e il resto non conta.