Se dall’aeroporto di Sheremetivo di Mosca si percorre a strada che porta verso il centro della capitale, sulla destra della carreggiata potrete un monumento che riproduce un tratto di trincea e di una massicciata che ricorda il punto esatto dove giunsero i tedeschi nell’inverno del 1941. Maledettamente vicini alla piazza Rossa: solo trentadue chilometri.

Per questo, ancora oggi, l’anniversario della fine della guerra che si festeggia ogni anno l’8-9 maggio, in Russia ha un significato particolare fatto di carne e sangue di quei venti e più milioni di sovietici che diedero la vita per fermare la barbarie nazista. La battaglia per Mosca (Bitva za Moskvu) durò 4 mesi e vi morirono un milioni di sovietici e circa 350mila soldati tedeschi. Ma la resistenza più straordinaria del popolo sovietico fu a Leningrado (Blokada Leningrada). L’assedio della città durò ben 900 giorni dall’8 settembre 1941 al 27 gennaio 1944. Si è trattato del secondo assedio più lungo della storia dopo quello di Sarajevo del 1992-1996 ma sicuramente il più cruento; morirono oltre 2 milioni di persone, e i civili spesso di stenti e fame.

Chi scrive partecipò alla manifestazione del 9 maggio per la prima volta, nell’allora Leningrado, nel 1990. A quei tempi alla testa del corteo sfilavano ancora orgogliosamente molti veterani con il loro carico di medaglie sul petto. Si trattava ancora, per molti versi, di una dimostrazione sovietica, fortemente segnata dal ruolo del Pcus e delle sue strutture, anche se la partecipazione popolare era comunque vivace e commossa.

Ma nell’era Eltsin, il degrado politico, sociale e morale mise in sordina l’anniversario. Tuttavia con l’ascesa di Putin e il rinnovato orgoglio e senso di appartenenza nazionale, piano piano le iniziative del 9 maggio sono tornate ad essere partecipate, fino a diventare negli ultimi anni uno straordinario appuntamento. Nel 2011 alcuni giornalisti di Tomsk proposero ai cittadini della loro città di partecipare alla manifestazione con incollate su dei cartelli le foto dei loro cari che avevano partecipato al conflitto, non importa se in qualità di soldati o semplici cittadini. Tale proposta sorse sulla base di una semplice considerazione: sopravvivevano ormai pochissimi veterani che potevano ancora trasmettere fisicamente quanto successo e quindi ora il testimone deve essere passato allea iniziativa delle nuove generazioni. L’iniziativa che ha preso il nome di Bessmertnaya Polk (Reggimento immortale), ebbe un grandissimo, spontaneo, successo popolare. In quelle migliaia di ritratti portati nelle strade con orgoglio dalla gente comune ci sono i mille fili di storie di uomini che si incontrano senza ambizioni sul palcoscenico della storia e le danno un significato non transeunte.

Il significato politico in chiave nazionalista che ha voluto darvi il governo dell’iniziativa è anch’esso chiaro. Ma il nazionalismo russo, varrà sottolinearlo, ha spesso più i tratti del patriottismo che dello sciovinismo. I russi si unirono nella lotta anti-nazista in grandissima parte non per difendere il regime staliniano, ma le proprie case e la propria stessa esistenza. Fu la “Grande guerra patriottica” non solo di chi credeva nell’Urss: la diaspora dei menscevichi esiliati da Lenin si appellarono alla resistenza e i trotskisti rinchiusi nel Gulag chiesero di poter di poter essere arruolati nell’Armata rossa. E, in buona parte sostennero l’Urss anche chi era stato dalla parte dei Bianchi nella guerra civile.

Se questo sentimento di pacificazione nazionale viene utilizzato dal putinismo, è anche vero che in parte lo trascende nella dimensione sentimentale di quella spuria “guerra di liberazione nazionale”. La lotta per ricacciare l’invasore assunse le sembianze di lotta per un mondo migliore libero da guerre e oppressioni.

Dal 2015 si tiene anche a Mosca la marcia del Bessmertnaya Polk. Ma già la sera prima ci si incontra nelle case, si cantano le tante canzoni di guerra e di resistenza, si guardano i film che ricordano il secondo conflitto mondiale. Nei quartieri le famiglie si organizzano per partecipare, e lo fanno in modo informale. Dalla Piazza Rossa, dopo la parata militare, la gente con i bimbi più piccoli sulle spalle, sciama per tutto il centro, sulle rive della Moscova riempie i caffè, scivola a piedi dalla collina dell’Università e Vorobevy Gory fino a Park Kultury, in attesa che il cielo sia illuminato dai fuochi d’artificio.

Vasilij Grossman che raccontò con insuperato lirismo quella tragedia, intese fare del suo scrivere, un monumento informale ai caduti: “Vorrei che il mio lavoro, almeno in minima parte, fosse degno di quella sofferenza che la guerra ha portato nel mondo, di quelle forze della storia dello spirito del popolo, di quei caratteri umani, di cui mi sto sforzando di scrivere. Voglio che il mio lavoro, almeno in minima parte, sia degno di quei soldati senza nome che hanno combattuto col male, dei quali non ci si deve dimenticare”.

UN’EPOPEA CHE CONTINUA ANCHE SULLO SCHERMO

Forse il cinema russo ha dato il meglio di sé nei film sulla seconda guerra mondiale o come la definiscono loro stessi “Grande guerra patriottica”. Il film sicuramente più popolare e che è riuscito a commuovere ogni generazione è E le albe qui sono tranquille (1972) adattamento cinematografico del racconto omonimo. Splendidamente recitato da una manciata di attrici dell’epoca (Irina Shevcuk, Olga Ostroumova, Elena Drapeko, Irina Dolganova) il film narra la vicenda di alcune giovani volontarie inviate in Carelia nel 1942 in aiuto di ufficiale scontento del comportamento delle sue truppe di sesso maschile dedite all’alcool e all’omosessualità. Le volontarie perderanno la vita per fermare un’azione diversiva delle truppe naziste ma salveranno l’onore dell’Armata Rossa. Il film ha anche conosciuto un remake televisivo in quattro puntate nel 2015.

Belorusskij Vokzal (1971) di Andrey Smirnov è, invece, la storia della chiamata a raccolta di alcuni ex commilitoni a quasi trent’anni dalla fine della guerra, in occasione dei funerali di uno di loro. È un pencolare nelle periferie brezneviane di vecchi compagni di lotta alla ricerca di un nuovo senso al sacrificio della guerra in una Russia ormai molto cambiata. La ballata (Ci occorre una vittoria) cantata all’unisono dai protagonisti verso la fine della pellicola sintetizza il loro straniamento e l’intima speranza che la comunanza forgiatasi nelle trincee possa essere trasmessa alle generazioni future. La canzone è diventata un vero inno e viene cantata spesso in coro nelle ricorrenza del 9 maggio.

Tra i film contemporanei va sicuramente segnalato La Fortezza di Brest firmato da Alexader Kott (autore della recente sfortunata e incerta mini-serie su Trotsky) del 2010, riesce a restare bene in equilibrio tra ricostruzione storica dell’assedio tedesco a Brest del 1941 e melodramma. Ottima anche la fotografia e il montaggio.

Anche il nostro cinema, in collaborazione con la Mosfilm, ha avuto un episodio interessante nel genere “grande guerra patriottica”. Si tratta de I girasoli uscito nelle sale nel 1969. Soggetto e sceneggiatura furono scritti a sei mani da Tonino Guerra, Cesare Zavattini e Georgij Mdivani. La regia fu affidata a Vittorio De Sica mentre per i ruoli principali venne scelta la premiata ditta Marcello Mastroianni- Sophia Loren, affiancati in questa occasione da Liudmila Saveleva. Qui Antonio (Mastroianni) è un soldato dell’esercito italiano che rimane disperso nella neve nella disastrosa ritirata del 1943. Salvato da Masha (Savaleva), quest’ultima ne diverrà la moglie malgrado in Italia l’attenda Giovanna (Loren) una prima moglie. L’ostinata ricerca del marito sin in Russia dove Giovanna viene sopraffatta dalla vita famigliare di Antonio, preannuncia l’ultimo ritorno in Italia molti anni dopo di Antonio che sancirà definitivamente il distacco da Giovanna segnato dalla tragedia del conflitto.

A proposito della “partita della morte” (che trattiamo in un altro articolo di questo speciale) è interessante segnalare come Fuga per la vittoria film americano del 1981 di John Huston, interpretato da Michael Caine, Sylvester Stallone e da alcuni celebri ex calciatori come Pelé e Bobby Moore, cannibalizzò letteralmente la leggenda sovietica facendola diventare una storia di calciatori e soldati anglosassoni che sconfiggono i tedeschi e riescono infine a sfuggire da un campo di reclusione in Francia. Nel dopoguerra in Urss sulla tragica epopea dei giocatori della Dinamo Kiev furono girati molti film. Nel 2011 il film Match in cooproduzione russa, tedesca e ucraina ha però il pregio di ricostruire con fedeltà l’intero dramma senza nulla concedere al mito e alla leggenda.

 

LA VITA APPESA A UN GOL

La leggenda della «partita della morte» giocata da calciatori della Dinamo Kiev contro una selezione di soldati tedeschi in uno stadio della capitale ucraina occupata dai nazisti nell’estate del 1942 iniziò a circolare in Urss già nel 1943. La propaganda sovietica aveva bisogno di storie «esemplari» nel momento in cui l’Armata Rossa si batteva per la vita e la morte a Stalingrado e la «partita della morte» era una storia commovente e mobilitante che venne romanzata e amplificata dalla stampa sovietica. Secondo la narrazione popolare, riportata da Anatolij Kuznecov nel suo libro sulle stragi a Babij Jar, le autorità tedesche vennero a sapere della presenza in città di alcuni giocatori della principale squadra di Kiev e proposero un incontro contro una squadra Forze armate tedesche. Quando la partita iniziò «lo stadio era gremito; metà delle tribune era occupata dai tedeschi… I posti peggiori furono occupati dagli ucraini di Kiev, affamati, cenciosi. Gli uomini della Dinamo erano spossati e deboli. I ben nutriti giocatori tedeschi erano arroganti e platealmente fallosi, ma l’arbitro non fischiava niente. Quando i kieviti incassarono il primo gol, i tedeschi sulle tribune urlarono di entusiasmo. L’altra metà dello stadio taceva cupamente… Allora i giocatori della Dinamo, come si suol dire, ebbero un sussulto d’orgoglio. Furono presi dal furore… Cominciarono a giocare meglio dei tedeschi, e con un’azione disperata segnarono il gol del pareggio. Stavolta le tribune tedesche tacquero deluse… I giocatori della Dinamo si ricordarono della loro classe prebellica, e dopo una serie di passaggi particolarmente riusciti segnarono il secondo gol. La gente cenciosa dagli spalti gridava: «Urrà!», «Battono i tedeschi!»… Durante l’intervallo, un ufficiale venuto dalla tribuna del comandante entrò nello spogliatoio della Dinamo e molto cortesemente disse quanto segue: «Siete bravi, avete mostrato un bel gioco, e noi l’abbiamo apprezzato. Avete difeso a sufficienza il vostro onore sportivo. Ma adesso, nel secondo tempo, giocate con più calma, lo capite anche voi: dovete perdere… La squadra dell’esercito tedesco finora non ha mai perso, tanto meno nei territori occupati. È un ordine. Se non perdete, sarete fucilati». I calciatori della Dinamo ascoltarono in silenzio e rientrarono in campo. L’arbitro fischia, inizia il secondo tempo. La Dinamo gioca bene e mette a segno un terzo gol… I tedeschi sugli spalti balzano in piedi, afferrano le pistole. Intorno al terreno di gioco corrono i gendarmi, circondandolo… I calciatori tedeschi sono completamente sopraffatti e schiacciati. La Dinamo segna un altro gol. Il comandante con tutti gli ufficiali abbandona la tribuna. L’arbitro si affrettò a concludere, fischiò la fine in anticipo; i gendarmi, senza aspettare che i giocatori rientrassero negli spogliatoi, arrestarono gli uomini della Dinamo lì sul campo e li portarono a Babij Jar». Fin qui la leggenda.
In realtà le cose andarono un po’ meno linearmente. I nazisti a partire dai primi mesi del 1942 tentarono di rilanciare una qualsivoglia vita sociale e culturale a Kiev. Per questo non furono ostili alla formazione di squadre di calcio ucraine ma anche di soldati occupanti. Inizialmente fu formato tra gli ucraini il club Rukh ma molti giocatori della ex Dinamo Kiev (ma anche della Lokomotiv) come il celebre portiere Nikolaj Trusevic non vollero farne parte per il suo stretto legame con le autorità tedesche e quindi in odore di collaborazionismo. Così venne fondato il club Start che ben presto si dimostrò imbattibile e inviso ai nazisti. Prima la Start sbaragliò squadre di soldati occupanti rumeni e ungheresi e poi fu la volta della Pgs tedesca che venne sconfitta per 6-0. Sul giornale degli occupanti uscì questo stizzito commento sulla partita: «… Ma questa vittoria non si può affatto considerare un risultato importante per i giocatori della Start. La squadra tedesca consiste di singoli giocatori piuttosto forti, ma non la si può definire una squadra nel vero senso della parola… La Start, come tutti ben sanno, consiste per lo più di calciatori dell’ex Dinamo, squadra professionistica…». Venne allora approntata l’«imbattibile Flakelt», una squadra tedesca considerata imbattibile. Il 6 agosto 1942, annunciato da manifesti in tutta la città, si tenne il primo incontro tra le due selezioni. La Start stravinse 5-1. I nazisti non ancora contenti proposero una rivincita passata poi alla storia come la «partita della morte» che si tenne il 9 agosto. Gli ucraini vinsero ancora 5-3. Naturalmente partite del genere non si tennero più. Alcuni giorni dopo buona parte dei giocatori della Start vennero prelevati dagli occupanti e spediti nei lager. Tre di essi (Nikolaj Trusevic, Alexej Klimenko e Ivan Kuzmenko) vennero in seguito fucilati.
La storiografia occidentale (ma purtroppo anche quella ucraina) contemporanea smontando la leggenda ha cercato di togliere qualsiasi significato politico e di resistenza civile a quella vicenda. Le partite si svolsero regolarmente e non esiste prova che i giocatori furono mandati nei lager per vendetta. Tuttavia ripristinando la verità storica, con operazione revisionistica, si intende trasformare il match della morte in una storia insignificante. Ma così non è per molti milioni di cittadini non solo ex-sovietici: il coraggio dei giocatori della Start che sapevano di rischiare la vita giocarono al meglio delle loro forze e rappresenteranno per sempre un esempio fulgido di dignità e di speranza.