L’immigrazione in Uk è in aumento più o meno costante da metà anni Novanta, e la tanto strombazzata crescitina dell’economia nazionale, costruita sulla flessibilizzazione selvaggia e sullo smantellamento del welfare, ha reso una volta di più il Paese quel che sotto molti aspetti è sempre stato: l’America di un’Europa oggi sovradimensionata e nelle tenaglie dell’austerity.

C’è insomma poco da meravigliarsi se le ultime cifre dall’ufficio nazionale di statistica (Ons) parlano di 318mila ingressi in più per il 2014. Per la precisione, sono entrate nel Paese 641mila persone, appunto 318mila in più di quelle che ne sono uscite (ovvero il tasso migratorio netto). Si sale di 20mila dal quadrimestre precedente e appena sotto il picco massimo, raggiunto sotto al governo Labour del 2005.

E non si tratta solamente dell’incremento degli ingressi dall’Ue (saliti a 42mila soprattutto grazie a quelli da Romania e Bulgaria, raddoppiati in un anno): sono aumentati anche gli ingressi di extracomunitari, a quota 67mila. Si stima inoltre che nel Paese l’accumulo di persone che sono rimaste nonostante la scadenza del visto e di cui s’ignora il domicilio sia di circa 300mila. Una stima: nessuno sa esattamente quanti siano.

I Tories sono tradizionalmente anti-immigrazione, ovvio, anche se sanno riconoscere benissimo un flusso costante di manodopera a basso costo come un bene inestimabile. L’importante è che non se ne manifestino troppo i segni vicino a casa loro, o alla scuola dei figli. Ma il recente avvento dell’Ukip costringe Cameron ad una delle sue prodezze d’equilibrismo non solo riguardo sul referendum europeo, ma anche a proposito dell’immigrazione.

Si ignora cosa abbia portato il premier a fidarsi di qualche geniale spin doctor che deve avergli detto che portare gli ingressi dei migranti sotto le 100mila unità annuali fosse un obiettivo spendibile già nella campagna elettorale del 2010. Per poi fargli addirittura insistere – recidivo e quindi diabolicum – con la stessa promessa in queste ultime elezioni, vinte quasi per sbaglio. Tuttavia l’immigrazione è pari a circa tre volte il minimo promesso da David Cameron, in un Paese dove certi obiettivi non si sbandierano con troppa facilità, pena la perdita irrevocabile di credibilità.

E sì che doveva crederci pure lui, e molto: qualora non fosse riuscito in simile impresa, il premier aveva invitato gli elettori a «mandarlo a casa». Tanta largesse nel promettere impone di solito il famigerato rimedio peggiore del male. Per questo Cameron ha cercato di scrollarsi l’imbarazzo di dosso annunciando, sempre giovedì, una mirabolante controffensiva del governo contro la marea di «turisti sociali» che prima di lanciarsi all’arrembaggio delle isole britanniche studiano meticolosamente la procedura per meglio avvalersi di sanità, alloggi e di tutto il benefit system.

Ora costoro, nelle parole del Premier, troveranno «la Gran Bretagna un posto meno piacevole per ingressi e lavoro illegale». Per questo ha promesso che il discorso della corona del prossimo mercoledì 27 conterrà un Immigration Bill volto al controllo dell’immigrazione clandestina e a introdurre il reato di lavoro illegale.

I migranti autorizzati a stare ma che lavorano illegalmente potranno essere perseguiti secondo l’Immigration Act del 1971 e subire la condanna sommaria a sei mesi oltre che a una multa. Il Bill punirà anche coloro che lavorano dopo essere entrati illegalmente o sono rimasti oltre lo scadere del permesso di soggiorno.

L’immigrazione resta una patata bollente. Ed è uno degli argomenti costati al Labour di Ed Miliband la recente sconfitta elettorale: l’imbarazzato silenzio rispetto al risentimento diffuso nel Paese per la crescente pressione migratoria, che ha abbassato i salari a messo la sanità pubblica sotto pressione, ha istigato il blocco storico della working class laburista tra le braccia dello xenofobo Farage.

Dal canto loro, Cameron e il ministro dell’interno Theresa May, resteranno in balia del loro incontrollabile controllo: per uscire dal velleitarismo, alla nuova draconiana legislazione dovranno seguire la rinegoziazione bizantina dei trattati con un’Ue in gran parte fredda verso le esigenze di Londra, ma soprattutto una qualche piega favorevole nei flussi del mercato del lavoro europeo.