Scrittrice, poetessa, giornalista, Alicia Dujovne Ortiz è una delle grandi figure della cultura argentina. Autrice di oltre una ventina di opere, tra biografie, romanzi e raccolte di poesia, ha collaborato con alcuni dei maggiori quotidiani latinoamericani ed europei, in particolare con Le Monde dopo aver scelto nel 1978, a 38 anni, di auto-esiliarsi a Parigi insieme a sua figlia per sfuggire alla repressione scatenata dalla giunta militare guidata dal generale Videla. A caratterizzare da sempre il suo lavoro è, in particolare, la capacità di leggere con il medesimo interesse le differenti forme e voci culturali argentine, passando dalla musica popolare alla filosofia, come ha dimostrato nei giorni scorsi a Roma dove è stata ospite di Più Libri Più Liberi per partecipare a una tavola rotonda sulla«eredità multimediale di Borges».

Quanto ha pesato l’ambiente in cui è cresciuta nel suo successivo interesse per le diverse forme della cultura argentina?
Credo molto. Mio padre fu uno dei fondatori del Pc argentino, ma era anche di origine ebrea e russa e viaggiò a lungo tra l’Europa e l’America Latina. Mia madre veniva invece da una famiglia benestante dell’interno dell’Argentina ed era scrittrice e femminista. Crescere in questo clima mi ha aiutato a pormi tante domande, ad andare oltre i luoghi comuni, specie dopo che mio padre scoprì e denunciò il sistema sovietico e l’antisemitismo di Stalin. Allo stesso tempo, questo fece crescere in me un grande interesse per i libri ma mi portò spesso ad isolarmi dai miei coetanei. Per questo ho finito per identificarmi con le figure che vivono ai margini della società, che fanno i conti con le proprie molteplici identità. Una sensazione che si è ovviamente accuita quando ho scelto di lasciare l’Argentina, all’inizio della dittatura militare che avrebbe fatto tante vittime tra i miei amici.

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Trovato rifugio a Parigi lei ha cominciato a interessarsi ad alcune delle icone della cultura popolare argentina, da Carlos Gardel a Eva Perón fino a Diego Armando Maradona, di cui ha ricostruito le vicende in biografie e romanzi. Con quale approccio?
Per la prima volta, a Parigi, credo di essermi resa conto di come, malgrado l’apertura mentale a cui ho fatto riferimento, buona parte degli argentini appartenenti alla borghesia intellettuale avessero spesso ignorato la straordinaria ricchezza della cultura popolare del loro paese. È in questo periodo che, per certi versi, posso dire di aver iniziato a conoscere davvero il calcio, il tango e lo stesso peronismo, inteso come fenomeno sociale e culturale più che specificamente politico, vale a dire tre dei fenomeni che più hanno marcato l’identità argentina.

Il suo libro sul celebre calciatore si intitola «Maradona soy yo»: dopo la scoperta è passata ad identificarsi con l’oggetto della sua indagine?
Non esattamente, ma quel titolo voleva esprimere comunque un sentimento di vicinanza. Mi spiego: come accaduto anche a me, Maradona ha posseduto una sorta di doppia identità e ha vissuto talvolta ai margini della sua comunità. È un argentino che è però sembrato trovarsi davvero a casa solo quando è arrivato in Italia. Era un atleta ma al tempo stesso aveva sviluppato una dipendenza dalla droga, per non parlare dei suoi rapporti con la malavita: era considerato un esempio ma anche una vergogna per il mondo del football. Per questo ho scritto il libro in prima persona, per dar conto di quel legame che sentivo esistesse tra la vita di Maradona e un sentimento di spaesamento, l’essere «fuori posto» che mi accompagna fin dall’infanzia.

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Alicia Dujovne Ortiz

Anche quando si è cimentata con la biografia di Evita Perón ha trovato dei tratti in qualche modo familiari?
Per certi versi sì, nel senso che anche Evita ha vissuto a lungo nell’ombra come Maradona e sul confine tra due identità. Era cresciuta in una famiglia poverissima, ma divenne una delle donne più famose e potenti della sua epoca. Malgrado fosse diventata la First Lady di un paese ricco come era l’Argentina degli anni Quaranta, gli aristocratici del paese le avrebbero fatto pesare sempre il fatto di essere nata povera e in un piccolo villaggio di provincia. Alla fine, il popolo l’avrebbe però amata più dello stesso Perón e lei, per quelo stesso popolo, avrebbe fatto davvero molto. Anche in questo caso perciò ci sono luci ed ombre, basti pensare alla repressione attuata da quel regime o il fatto che fece entrare nel paese tanti ex fascisti e nazisti, vicenda in cui Evita ebbe un ruolo di primo piano, ma pure una vita giocata attraverso più identità.

Si arriva così al romanzo «Mireya» dove appare un ritratto nitido del «padre del tango», Carlos Gardel. Come è andata in questo caso?
La protagonista, Mireya, era una giovane prostituta francese che fece da modella per Toulouse Lautrec e che in seguito emigrò a Buenos Aires per lavorare in un postribolo. Gli immigrati europei, come le donne che vivevano ai margini della società guadagnandosi di che vivere vendendo i loro corpi, erano parte di quegli ambienti popolari della società argentina in cui nacque il tango. È in questo contesto che nel romanzo appare il personaggio di Carlos Gardel, il famoso cantante di tango destinato a diventare un simbolo della musica e della cultura popolare argentina. Anche Gardel era un immigrato, era nato a Tolosa, e per tutta la sua vita in lui avrebbero convissuto le radici francesi e quanto aveva appreso ed era diventato in Argentina.

Alla fine di questo percorso ha capito cosa ha contribuito a proiettare Maradona, Evita e Gardel dal piano della storia a quello del mito?
I greci sostenevano che affinché un eroe diventi tale agli occhi del popolo debba in qualche modo rendere visibile la propria fragilità. Nel caso del seguito che tali figure possiedono ancora per molti argentini penso valga la stessa considerazione. Si tratta di personaggi arrivati alla notorietà o al successo attraverso la sofferenza: sono partiti dalla base della scala sociale per poi arrivare in cima, ma poi, spesso, sono ricaduti giù. Sono stati più volte vicini alla morte o comunque al rischio, e la gente ha seguito con trepidazione e calore le loro sorti.
Di Evita e Maradona abbiamo già detto, ma anche per Gardel vale lo stesso discorso: avrebbe goduto davvero di un amore eterno e incondizionato se fosse stato un buon marito e un buon padre, se avesse elargito consigli di prudenza al termine della sua esistenza burrascosa? Il suo destino di eroe popolare lo avvicinava fatalmente agli eccessi e a una vita condotta sempre sul filo tra l’oscurità e la luce, proprio come avviene nel tango.