Harun Farocki è scomparso il 30 luglio, si è sentito male dopo un bagno, mentre riposava al sole. Da alcuni anni, si era messo a viaggiare per il mondo, esportando, senza risparmiarsi, esposizioni in tutti i continenti, tenendo seminari in università e in scuole d’arte, insegnando, con i film e con i corsi, a comprendere il linguaggio delle immagini. Nel doppio solco di Karl Marx e di Jean-Luc Godard – a quest’ultimo aveva consacrato un libro scritto insieme a Kaja Silvermann (Speaking with Godard, NYU Press, 1998), Farocki è stato il maestro della critica delle immagini.
Nel mese di maggio 2006, al Festival Internazionale di Jeunju, in Corea del Sud, ho avuto la gioia di partecipare ad una giuria presieduta proprio da Harun Farocki. Un cortometraggio, che non era tra quelli in concorso, ci colpì al punto che chiedemmo alla direzione della rassegna l’autorizzazione per potergli attribuire un premio speciale. Si trattava del film 11000 km from New York di Orzu Sharipov. La direzione si prestò volentieri alla nostra richiesta. Fu così che Harun Farocki, Wan-Kyung Sung ed io redigemmo una nota per giustificare quel premio fuori programma. Ora, quella nota riassume perfettamente le caratteristiche dell’opera stessa di Farocki. «La Giuria vuole attribuire un premio molto speciale a un film nel quale abbiamo unanimemente trovato quelle stesse qualità che rendono il cinema necessario: un confronto, diretto e intelligente, con la realtà storica, una struttura forte e sottile, un uso personale e critico dei dispositivi di registrazione, opposto a quello dei grandi media».
Riprendiamo i termini uno ad uno.
«Un confronto, diretto e intelligente, con la realtà storica»: Farocki, cineasta ceco di origine turca, nato nel 1944, compie i suoi studi di cinema negli anni sessanta, alla Deutsche Film und Fernsehakademie di Berlin. Tra i suoi compagni di corso, c’è Holger Meins che, in seguito, entrerà a far parte della Rote Armee Fraktion. Con lui, Farocki inscena una protesta contro la guerra del Vietnam, durante il Festival belga di Knokke-le-Zout, nel 1967. Come quelli di Holger Meins (per esempio Making Molotov cocktail), i primi film di Farocki, girati in bianco e nero 16mm, sono dei gioielli del cinema di agit-prop: The words of the Chairman, 1967 – le «parole» sono delle armi di carta), Their newspapers (1968 – contro la stampa borghese di Alex Springer), White Christmas (1968 – mentre Bing Crosby canta «Pace sulla terra», Harun ricorda che piovono bombe sul Vietnam). Il più celebre resta Inextinguishable Fire (1969) che unisce attivismo e performance: per evocare l’effetto devastante del napalm sul corpo umano, Harun Farocki si spegne una sigaretta sul braccio. «Uno dei primi film punk», commenterà più tardi, sorridendo. È così che prendeva la Storia sottobraccio.
«Una struttura forte e sottile»: molto presto, cosciente della specificità del suo mezzo di comunicazione, Farocki mise al centro del suo lavoro un confronto che non è quello tra il piccolo corpo di un singolo e il grande movimento collettivo della Storia, ma quello tra le rappresentazioni dominanti e l’analisi critica delle immagini. Industrie und Fotografie (1979), Before your eyes Vietnam (1982), An Image (1983), Images of world and Inscription of war (1988), Still life (1997), War at distance (2003), Respite (2007)…
Prima in 16mm, poi in video, la guerra delle immagini condotta da Farocki partecipa allo sviluppo di una forma cinematografica cruciale, lo studio delle arti visuali. Lo studio visuale organizza un incontro frontale, un faccia a faccia tra un’immagine già fatta e un progetto figurativo. Detto altrimenti, si tratta di uno studio dell’immagine attraverso questa stessa.
«Un uso personale e critico dei dispositivi di registrazione»: il lavoro del regista permette di superare la divisione tra il lavoro manuale e quello intellettuale.
In Section (1995), l’osservazione attenta dei gesti del montatore alla moviola disegna un territorio comune e concreto tra il movimento speculativo e il lavoro manuale, territorio che il film Der Ausdruck, der Hände (1997) estenderà ulteriormente. Le descrizioni rispettive della regia di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet (JM Straub and D. Huillet at work on Franz Kafka’s Amerika, 1983) poi la recitazione di Peter Lorre (The double face of Peter Lorre, 1984) prolungheranno questa riflessione intorno all’opera dei più grandi creatori del XX secolo.
La sintesi di queste diverse dimensioni si trova senza dubbio nella serie di film che osservano con vigile attenzione come i corpi vengano attaccati, soggiogati e svuotati dall’insieme delle tecniche di controllo: Indoctrination (1987) filma un seminario dove ai quadri superiori vengono inculcate le pratiche della persuasione; il capolavoro How to live in the Federal Republic of Germany (1990) descrive la normalizzazione dei comportamenti in diversi mestieri (scuola di polizia, di infermiera, compagnia di assicurazioni); The Appearance (1996) si consacra al mondo della pubblicità e dei loghi; The Interview (1997), The creators of the Shopping World (2001) sono i film etnologici che merita il mondo occidentale che commercia la vita, rendendola solo amministrativa e rendola in parte mutilata.
Qual è il film più sovversivo della storia del cinema? A questa domanda, posta dalle pagine dei Cahiers du Cinéma, il giovane cineasta argentino Mauro Andrizzi, autore di un film cruciale – Iraqi Short Films (2008) – ha risposto: «Videograms of a Revolution di Harun Farocki et Andrei Ujica» (1992). E, a sua volta, ha giustificato la sua scelta con queste parole: «Come fare una rivoluzione con la televisione. Un buon esempio di un possibile uso della rete. Il miglior momento del film: la faccia di Ceausescu ripresa dalla televisione ufficiale, mentre la popolazione invade il Comitato Centrale di Bucharest. Nessun controcampo sulla folla. Sono la sua faccia impietrita, che osserva il nulla. Poi, la macchina da presa inquadra il cielo, e ci sono solo il cielo e le urla. Puro cinema. La rivoluzione, in diretta»
(Traduzione dal francese di Eugenio Renzi)