La Cambogia e la sua immagine nascosta attraverso il tempo. In Hidden photos di Davide Grotta, il Paese, oggi segnato, come racconta il regista, da “cambiamenti esponenziali e continui”, si cerca, si specchia: ora in una donna intenta a scavare in un campo per dissotterrare il suo tesoro sepolto quarant’anni prima, durante il regime dei Khmer rossi (1975-79), quando 1.7milioni di persone furono annientate e quando avere un passato sociale e foto di famiglia era un crimine; ora nel figlio di lei, Kim Hak, giovane fotografo apprezzato nel mondo, che la ritrae insieme al marito, suo padre, con la macchina manuale e, nel progetto “Mia amata”, fa lo stesso con le bellezze della sua terra; ora in Nhem En, un tempo fotografo ragazzino di Pol Pot presso il carcere della tortura di Tuol Sleng e adesso aspirante businessman del turismo fondato sul genocidio; o in una “Madonna col Bambino” da lui ritratta col numero al collo, ci guarda prima di essere mandata a morte; e ancora in una lavoratrice del Cambodian Cultural Village, intenta a spolverare le statue di cera del museo che riavvolge la storia nazionale dal I al XXI secolo, o tra le note stranianti di una audioguida, tra giunchi nel vento, acque e cielo, nei volti come giunchiglie delle donne, nelle danze dei repertori o tra i bambini appesi a un grande tronco sul fiume.

Ne sgorga una giostra poetica di prospettive dialoganti, abissi, radiazioni di umana geografia, che muovono da una riflessione sull’immagine (possono, come sentiva Pasolini, la pellicola e il sole “esprimere in tanto vecchio odio un po’ di vecchio amore”?) e che abbiamo indagato con Davide Grotta al #BFF35 Bellaria Film Fest. Da lì Hidden photos, sua prova di diploma alla Scuola Zelig, dopo aver vinto il Premio Casa Rossa Art Doc, si prepara a incontrare il sud est asiatico, da Taiwan in poi.

Cominciamo dalle motivazioni del progetto.

Al centro ci sono la fotografia e il museo, luoghi universali che amo esplorare ogni giorno. Ho pensato alla Cambogia come al laboratorio da cui osservarli. Avevo vissuto lì tre anni e, dovendo fare il documentario di diploma per la scuola, mi sono rivolto a quel Paese, la mia unica vera esperienza di vita fino a quel momento.

Perché tre anni in Cambogia?

Sono un archeologo e, in seguito a un percorso con un fotografo palermitano, ho lavorato anche come fotoreporter. Nel frattempo in Sicilia ho incontrato un ragazza cambogiana, mi sono innamorato e ho deciso di seguirla in Cambogia, anche perché ero assistente di Shobha Battaglia, figlia di Letizia, e lei, guarda caso, aveva un progetto lì.

Quindi a farti incontrare la Cambogia è stato l’amore?

Sì, ma poteva essere anche l’Antartide, non sarebbe cambiato nulla. Io non sapevo nemmeno dove fosse la Cambogia. E l’impatto iniziale è stato duro: il quartiere in cui abitavo a Phnom Penh la sera era del tutto privo di luce e avevo tante paure da straniero in terra lontana. Poi i ragazzi italiani con cui abitavo mi hanno aiutato a …

A inoltrarti nel buio …

Sì. Ho imparato il cambogiano, ma solo per sopravvivere: avevo sempre intenzione di ripartire. Invece. Al ritorno in Italia ho deciso di investire tre anni alla Zelig e mi sono trasferito a Bolzano.

Qual era il primo assetto di Hidden photos? Arduo immaginare sia stato pensato così fin dall’inizio.

In realtà nella prima bozza c’erano già le sue linee essenziali: il confronto generazionale parallelo tra Nhem En e un fotografo giovane, e il ramo del turismo. Certo, un punto cruciale è stato il cambio di uno dei personaggi a pochi giorni dall’arrivo in Cambogia. Perché la nostra prima scelta tra i giovani fotografi non era kim Hak e con Gabriele Borghi, il montatore e Alexander Fontana, il direttore della fotografia, siamo stati bravi a restare aperti.

Perché questo cambiamento e perché Kim Hak.

Conoscevo il suo lavoro e sapevo che indagava anche sugli oggetti di famiglia e su ciò che resta di quattro anni di inferno vissuti dai suoi sotto i Khmer rossi, brandelli di sciarpe o di calzini. Io però non volevo un altro fotografo che narrasse il regime, né la memoria. Ma quando ci siamo incontrati in Cambogia, è emersa la storia di sua madre che aveva nascosto le foto di famiglia e come il loro ritrovamento lo avesse condotto alla fotografia. È stato decisivo.

E il fotografo che avevi scelto prima?

Anche lui fa parte della prima generazione di artisti cambogiani che, spinta dalla enorme diseguale crescita economica e dallo scambio con altri Paesi, si interroga sulla propria immagine dopo il buio durante e post i Khmer rossi. Pha Lina fotografa gli abitanti di remote comunità dopo averli mummificati – ricoperti del tutto – con un metro da sarta.

Quale è stata la vostra bussola etica per il film e quali i riferimenti cinematografici.

Avevamo un unico terrore: quello di fare un film sul genocidio, verso il quale ci spingevano quando abbiamo presentato il progetto. Diversi autori si sono soffermati sulla materia. Rithy Panh ne fa un discorso ancorato indissolubilmente alla sua storia di vittima e poi di rifugiato. Ne L’immagine mancante (2013, ndr) indaga la sua impossibilità di visione, perché i Khmer rossi lo hanno privato dell’immagine della madre e del padre, come è accaduto in tante famiglie cambogiane. Non essendo io cambogiano, fare un film sul genocidio sarebbe stata una operazione rischiosa e ridondante. Anche se i miei amici più cari mi hanno detto che su Hak proietto parte di me. Ne sono stato conscio solo nel finale.

E come sei arrivato a Nhem En e alla “fotocamera della morte”?

A lui ho pensato subito. A causa del mio lavoro conoscevo la sua storia. Mi premeva il raffronto paradossale tra un fotografo anziano che cerca di far soldi su un passato lacerante e uno giovane che invece si dà alla ricerca artistica itinerante nel Paese.

Come ti sei posto nella delicata relazione umana con lui?

Abbiamo scritto che i soldati Khmer, essendo stati arruolati bambini, sono stati assolti perché considerati vittime di guerra. Nel suo caso è avvenuto a undici; poi il regime lo ha spedito su una nave diretta a Shangai dove tanti ragazzini erano istruiti a diventare cartografi fotografi e cineoperatori. Nhem En racconta che non poteva sbagliare una fotografia, doveva assicurarsi si vedessero bene gli occhi dei prossimi giustiziati. Non l’ho mai giudicato, sembra del tutto inconsapevole: non naviga nell’oro ma al tempo stesso si illude di poter fare qualcosa che le autorità non consentono. Non volevo indagare la sua responsabilità durante il regime, ma solo seguirlo nei suoi tour nella zona templare e nel suo incontro con Kim Hak.

Riferendoti a Augé, ti sei inoltrato nel museo, tra non luoghi e rovine.

Oggi ci è richiesta una riflessione più profonda sul turismo. Penso a Austerlitz di Lotnitsa. Succede ovunque, anche a Sarajevo. Non punto il dito: siamo vittime di una distrazione che ci porta a vedere la forma a scapito dei contenuti. Penso al Museo Egizio di Torino dove siamo schiavi del viaggio virtuale col telefonino e rimpiango le vecchie collezioni archeologiche: forse capivi poco, ma te ne tornavi a casa con un po’ più di immaginazione.

L’audioguida ha una voce femminile. Tra fine umorismo e una indicibile provocazione di genere, che siano gli uomini a fare la Storia … Hai percepito una società sessista?

No, anche se più che la religione, sono le tradizioni contadine a essere ancora stringenti. L’audioguida è costruita per far credere sia vera, e poi per sgretolarla pian piano. Quella frase l’attrice aveva difficoltà a pronunciarla. Abbiamo dovuto sottolineare l’opposto, che il film sostiene: il ruolo salvifico della madre.

Raramente le foto di Kim Hak coincidono col frame del film, spesso sono provini, delicati come fiori nelle sue mani.

Amo la gestualità. Hak ha un suo modo rispettoso di toccare le foto: come fossero qualcosa di fragile, inestimabile. Di contro nel colloquio con Nhem En, vediamo quest’ultimo buttarle brutalmente sul tavolo.

Anni fa una sera rientrando a casa, un vigile mi disse che a causa di una bomba della seconda guerra mondiale, avevamo mezz’ora per andar via. Mi chiesi allora, cosa porto e subito pensai alle foto. Quanto la dimensione emotiva profonda ti è stata da guida in questo progetto?

É stata determinante. Ho sentito di una signora che durante il terremoto a L’Aquila, dovendo scappare, non ha pensato al cibo alle pillole ai soldi ma all’album di foto. E lo stesso è accaduto a delle comunità in Bosnia, prima di abbandonare casa e fuggire.

 

maria_grosso_dcl@yahoo.it