«Sono stato bravo? Ho risposto bene?», chiede alle figlie Antonia e Valentina, che premurose lo accompagnano tra le stanze della mostra a lui dedicata e appena inaugurata. Forse è questo l’unico momento in cui l’artista e maestro cede il passo all’uomo di 95 anni.
Il «fabbricante di immagini» come ama definirsi Eugenio Carmi, fra i più influenti rappresentanti dell’astrattismo italiano, è nato a Genova il 17 febbraio del 1920. Nella stessa città, dal 1956 al 1965, ha messo in pratica un importante esperimento di arte civile come responsabile per l’immagine dell’industria siderurgica Cornigliano-Italsider. «Sei stato bravissimo», lo rassicurano le figlie.

«Realizzare oggi una rivista come Cornigliano sarebbe impossibile…». Si arrabbia Carmi pensando a quanto sia andato perduto di quel tentativo di promuovere una politica culturale che avvicinasse la produzione dell’élite intellettuale a quella delle fabbriche, le accademie al territorio, in modo che si innescasse un circolo virtuoso. L’allora segretario generale della Cornigliano – industria siderurgica genovese che nel 1961, in seguito alla fusione con Ilva, diventerà l’Italsider – Gian Lupo Osti aveva chiamato Eugenio Carmi a svolgere il ruolo di consulente artistico. «Osti era un dirigente illuminato, di grande cultura – racconta l’artista –. Come Olivetti era convinto che l’industria non dovesse produrre solo beni materiali, ma anche cultura e progresso civile». E così accadeva a Genova, negli anni del boom e delle fabbriche pompate dal piano Marshall, sotto lo stesso altoforno abbattuto una decina di anni fa per fare spazio a una multisala e a un’industria meno inquinante, nella stessa mensa dove anche Guido Rossa consumava ogni giorno il suo pasto.

Carmi per l’Italsider curava la rivista di informazione destinata agli operai, affidando le copertine ai più interessanti artisti contemporanei e alcuni lavori fotografici al fotografo svizzero Kurt Blum: «Aveva un tocco speciale nel rendere il fascino e la mostruosità degli impianti industriali». Talmente bravo che nel 1960 il loro documentario a quattro mani L’uomo, il fuoco e il ferro, allegoria della vita in fabbrica, vinse il Leone d’Oro alla Biennale del Cinema di Venezia nella sezione documentari.
La rivista Cornigliano era un veicolo di arte e cultura, ma Eugenio Carmi veniva a sua volta ispirato dal contatto con gli operai: «I lavoratori dell’Italsider erano estremamente creativi – ricorda – e capivano all’istante quali fossero le mie idee e come potevano aiutarmi a realizzarle. In quel periodo, feci alcune opere a fuoco, utilizzando l’acciaio, il ferro e altre materie industriali; furono gli operai a insegnarmi come maneggiarle».

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Non solo. «In quegli anni – continua – anche chi lavorava in fabbrica aveva chiaro il senso della bellezza che era insito nel nostro Paese, comprendeva quale enorme patrimonio fosse quello estetico… Oggi invece, non dico i padroni delle fabbriche, ma neppure lo Stato investe e difende a sufficienza la bellezza».
Il diritto a quella bellezza, nella fabbrica di Cornigliano, venne tradotto da Carmi anche in una serie di otto cartelli antinfortunistici. «Nel 1965 mi venne chiesto di progettare la segnaletica per alcuni padiglioni dell’acciaieria. L’idea fu quella di ribaltare il messaggio, riportando l’attenzione non sul pericolo da evitare, ma sulle parti del corpo da preservare, e così nascono ’mani’, ’testa’, ’occhi’. Chi lavora in fabbrica ha bisogno non solo di bellezza, ma anche di un pensiero stimolante e non meccanico o scontato».

Geometrie semplici, colori primari, testi in helvetica: quei cartelli furono considerati un punto di svolta per la storia della grafica applicata in Italia (lo sostenne, tra gli altri, Bruno Munari). Sempre a quegli stessi cartelli ha dedicato un trattato di semiotica Umberto Eco, amico di Eugenio Carmi sin dagli anni Sessanta e con il quale illustrò tre favole per bambini: I tre cosmonauti, La bomba e il generale e Gli gnomi di Gnu. «Ho sei nipoti, ma oggi sarebbe più difficile catturare la loro attenzione – confessa Carmi –. I bambini nascono con un telefonino in mano, hanno a disposizione strumenti tecnologici a non finire, ed è anche per questo che l’arte come talento manuale, come elemento distintivo di una cultura, rischia di scomparire». Eugenio Carmi riassume tutto questo processo in una parola, «globalizzazione», e non lo giudica positivamente. «Tutto sta cambiando e sta cambiando in peggio». Sul futuro dell’arte non aggiunge altro, affonda le mani nelle tasche di un paio di pantaloni da escursionista, e si adombra per qualche istante, lo sguardo serio e obliquo come quello che sfoggia in un suo autoritratto del 1949, quando ancora si cimentava nell’arte figurativa, ispirato da maestri come Felice Casorati o Guido Galletti.
Di famiglia ebraica, emigrato in Svizzera a causa delle persecuzioni razziali, Eugenio Carmi negli anni dopo il conflitto torna a Genova dove incontra la moglie Kiki Vices Vinci, anche lei artista originale e da riscoprire. Genova è una città distrutta dai bombardamenti eppure già fervente nella ricostruzione, ed è qui che l’artista inizia a lavorare come grafico pubblicitario e passa dalla pittura figurativa a quella astratta e informale, affiancando alle tele carte e collage. Vicino a casa, nel borgo di Boccadasse, apre una galleria d’arte – la Galleria del deposito – che diventerà uno dei centri culturali più vivaci nel panorama nazionale. «Organizzavamo una mostra al mese, eravamo amici, avevamo fondato una cooperativa e avevamo una sola regola: i ricavi erano sempre reinvestiti in nuove opere». Tra i gozzi dei pescatori e gli spazi di quell’ex deposito di carbone bazzicavano personaggi come Victor Vasarely, Umberto Eco, Max Bill, Furio Colombo, Ugo Mulas, Emanuele Luzzati, Flavio Costantini.

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«Non lo so. A questa domanda non ho mai saputo rispondere». La domanda è come nasca un’opera d’arte. Eugenio Carmi è convinto che «non ci sia risposta, perché il cervello umano è incomprensibile e imprevedibile, ma è proprio per questo motivo che esisterà sempre l’arte». E quella di Carmi è, in effetti, imprevedibile (anche se sempre comprensibile) se in settant’anni di produzione passa dal figurativismo all’informale, dal cinetismo all’astrattismo puro, dallo studio della geometria e della sezione aurea a quello delle scienze sociali e psicologiche, dall’interesse per materiali come la juta e il ferro a quello per la tecnologia, l’elettronica o la musica.

Nel 1966 alla Biennale di Venezia partecipa con un’opera chiamata Spce (Struttura policiclica a controllo elettronico) che gli vale l’invito da parte di Pierre Restany a partecipare con altre opere elettroniche alla sua mostra Superlund a Stoccolma.
Nel 1973 per il Servizio Programmi Sperimentali della Rai, Eugenio Carmi concepisce un lavoro astratto: C’era una volta un re, visibile alla personale allestita a Palazzo Ducale di Genova, ma rintracciabile anche su internet. Puntando una telecamera contro l’altra vengono fuori immagini impreviste che l’artista, con un lungo lavoro insieme ai tecnici Rai, riplasma per ottenere forme astratte in movimento.

«Le musiche originali erano di Antonio Paccagnini – spiega Carmi – si trattava di un lavoro impegnativo sia per la realizzazione che per la sua fruizione. Oggi, nonostante i mille canali televisivi, non ci sarebbe più spazio per nulla del genere». La cifra delle riflessioni di Eugenio Carmi è spesso quella di un rimpianto, di un ricordo parzialmente amaro, di chi ha vissuto il fermento culturale di un’epoca e poi lo ha visto progressivamente spegnersi, o semplicemente mutare, «in peggio», senza più belle sorprese.

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La sua ultima opera, un colorato collage su tela composto da forme geometriche, terminato nel 2013, si intitola Non si finisce mai di stupirsi. «Il titolo fa riferimento principalmente al tempo che stiamo vivendo adesso, un tempo in cui, a parte la crisi di cui tutti parlano, non riusciamo ad abituarci alla mancanza di coscienza di chi, ripeto, non riconosce la bellezza del nostro Paese».