Monica Ferrando: «Lo stato attuale del volto induce a riflettere sull’immagine e sul suo ruolo decisivo, attivo o passivo, nella relazione a sé e agli altri. L’immagine di sé è un punto cruciale della filosofia platonica: dall’invocazione di Socrate al dio Pan (la cui immagine nell’Atene del tempo era assai controversa) perché interiore ed esteriore si corrispondano, all’esortazione di Plotino a non cessare di lavorare alla propria immagine interiore, assistiamo all’esigenza di un processo di elaborazione che scongiuri la superficialità dell’omologazione per raggiungere la profondità individuale sviluppando un pensiero in grado di evitare illusioni e cedimenti mimetici nei confronti dell’attuale (per innominabile che sia, irreparabilmente seduttivo)».

Sarantis Thanopulos: «Lo stato attuale del volto è una maschera che ha perso la sua qualità di rivelare nascondendo, quindi di alludere, accennare ad altro. Fermo nel presente non rivela né nasconde, non rimanda a nessuna interiorità, non porta i segni della storia, non anticipa nulla. Un’immagine non comunicante di sé, in cui il senso di sé si ammutisce.

L’attuale seduce con l’ingannevole promessa dell’eternità. L’immagine in cui il volto del soggetto sedotto si riflette, e riflettendosi la riproduce mimeticamente, appare effimera, ma nella sua cangevolezza multiforme (sorretta da effetti speciali) resta stabile nel suo effetto ipnotizzante. È una Sfinge senza enigma, un’aporia senza interrogativo. La percezione costruisce una sequenza di schemi mentali-comportamentali fissi, funzionali all’appagamento puro dei bisogni (reali o artificiali) che si oppone al pensiero vivo, legato al sogno e all’immaginazione desiderante di sé e del mondo».

Monica Ferrando: «Così l’immagine di sé, da processo in fieri, scade a fissa entità tecnogenica. Vediamo la “narrativa linguistica sociale”perfezionarsi a tal punto da coincidere con quella personale che, assorbita in una collaudata maschera, abolisce ogni incrinatura di silenzio e di vuoto, condizione perché affiorino desiderio, compassione, ascolto dell’altro; un’impassibilità tecnologicamente testata fa sì che i marcatori restino impeccabili, lasciando la patologia occulta e incurabile.

Se tutto si risolve nella rispecchiata perfezione di un’immagine-maschera in grado di riparare vulnerabilità fisica, estetica, psichica, intellettuale (condizione caratteristica anche se non comunissima del nostro tempo) lo spazio del dialogo, tanto interiore che esteriore, viene meno.

Tali immagini bloccate non dialogano perché si aspettano, come le icone, un’adorazione fatalmente idolatrica. Diventare questo tipo di immagine significa evitare prospettive diverse che non siano contenute e previste nella stessa immagine. L’attuale trionfo della parola ‘icona’ applicato alla condizione umana suona tristemente parodico di uno statuto di fissa legittimità mutuato dal sacro ma valido, eventualmente, solo in questo ambito».

Sarantis Thanopulos: «Cogli perfettamente il fatto che l’immagine di sé tecnogenica (levigata scientemente per cancellare incertezze, contraddizioni, conflitti, imperfezioni che ne testimoniano l’autenticità, particolarità, il suo non essere sottomessa a un canone estetico di omologazione) è un potente strumento di purificazione della narrativa linguistica sociale da ogni dissonanza con la narrativa personale che rivelerebbe non tanto un difetto di quest’ultima da correggere, quanto piuttosto l’effetto della violenza deformante di cui è vittima.

Ciò che in effetti accade, è l’annullamento dell’uso soggettivo del linguaggio, la sua piena conformazione alla sintassi sociale. L’‘icona’, l’immagine che non essendo mai stata in fieri, non si trasforma, esiste nel mondo di oggi come fissità mutevole, un ossimoro che imita il sacro, il rimando a che ciò che eccede l’essere umano, reificandolo. È la fonte del discorso spersonalizzante ».