A partire dal dopoguerra, l’opinione pubblica non è più condizionata dalla pagina scritta, ma piuttosto da immagini che, poste una dopo l’altra, raccontano la storia del Novecento. Pensiamo al fallimento da parte degli Usa della guerra in Vietnam a causa delle crude immagini di guerra. Da cui la censura visiva totale che ha colpito la prima Guerra del Golfo, denominata perciò «la guerra che non ha mai avuto luogo» ed infine ai fotografi embedded nella seconda, che dovevano conferire al conflitto una valenza eroica e patriottica.

Chiunque poi si interessi di propaganda, sa che l’argomento «strage di bambini» sia per immagini, che per testimonianza scritta, rappresenta l’argomento infallibile per piegare l’opinione pubblica alla propaganda di guerra. Strage di bambini sono state attribuite a Sadam Hussein e, più recentemente ad Assad, per giustificare interventi bellici, altrimenti difficili da giustificare. In breve tempo abbiamo ricevuto due immagini che ribaltano la xenofobia contro i profughi, sino ad oggi prevalente.

La prima è l’immagine della signora greca che piange abbracciata al profugo che ha appena salvato, raccogliendolo in mare. Lo schema è quello di una moderna pietà dove, come nella prima Pietà di Michelangelo, una donna giovane e bella sostiene il corpo abbandonato del figlio coetaneo.

Ma è la seconda immagine che ha influito più profondamente sul nostro immaginario. È l’immagine del bambino profugo morto sul bagnasciuga, inquadrata a partire dalle scarpette da bambolotto. Questa immagine è estremamente straziante perché ritrae un bambino iperinfantile secondo gli schemi della psicologia visiva. Qui l’efficacia non passa attraverso il disgusto e l’indignazione che un corpo martoriato di bambino non può non comunicare. Il corpicino è integro e sembra dormire. È vestito all’occidentale e sembra uno di noi. Quello che provoca è tenerezza e desiderio di accudimento.

Siamo annientati perché non possiamo fare più niente per lui, prenderlo in braccio, cullarlo, portarlo in salvo come il nostro inconscio vorrebbe.

È un raro caso di messaggio progressista.