L’imperturbabile libertà dello sguardo di Peter Dronke, ultimo grande maestro di una medioevistica totale scomparso lo scorso 19 aprile, ha un singolare carattere estetico. La poesia, oggetto sostanziale dei suoi libri, è resa sempre attraverso l’autonomia del momento estetico.
Il puro piacere dell’intuizione poetica, irrelata ad altro che non sia la propria luce, è il fuoco centrale del suo Medioevo, non artificiosamente spogliato, ma intelligentemente alleggerito degli strati più superficiali e omologanti delle sue armature ideologiche.
La poesia latina del IX secolo rivela attraverso la pagina di Dronke (Riuso di forme e immagini antiche nella poesia,1999, ora in Forms and imaginings. From antiquity to the Fifteenth Century, Edizioni di Storia e Letteratura, 2007) la gioiosa leggerezza neoclassica di un Dio che fa esistere l’universo col proprio sorriso (nel Concentus parilis di Notkero Balbulo: «colui che col suo cenno fa gioire ed esistere / ogni cosa») come la Venere foscoliana rese feconde le isole Ionie «col suo primo sorriso».
Per contemplare pienamente – da questo e non dallo «spiegare» si libera la straordinaria comprensione dei testi offerta da Dronke – il gesto vitale e poetico che anima quest’immagine, lo studioso ne segnala la somiglianza con la «cosmogonia del riso» di tradizione orfica (nota all’Occidente attraverso Proclo), ben più sostanziale di quella, ovvia e di superficie, con la IV ecloga virgiliana, a cui i commenti tradizionali si erano limitati.
Due aspetti di questo modo di leggere sono essenziali: il «decentramento» dei modelli della poesia medioevale (dall’ovvio e «occidentale» Virgilio all’apparentemente raro e «orientale» orfismo raccolto da Proclo) e la liberazione del potenziale concettuale di un’immagine poetica attraverso un’immagine affine. Il gioco di specchi con cui l’amore di Dio per il creato – in genere descritto come esclusivamente cristiano e opposto all’indifferenza del divino di tradizione classica – si veste di motivi orfici e platonici, è uno degli sterminati paesaggi aperti dallo sguardo di Peter Dronke.
Nato a Colonia nel 1934 da famiglia sensibilissima alla poesia (la madre, attrice, fu in contatto con T. S. Eliot per un progetto di messa in scena di The Rock) e radicalmente antinazista, egli emigrò nel ’39 con i genitori in Nuova Zelanda, dove restò sino al completamento degli studi universitari. Quando nel ’55 fece ritorno in Europa grazie a una borsa di studio a Oxford, Dronke entrò nel mondo accademico inglese portando con sé un’inclinazione non eurocentrica e una sensibilità comparatistica affine e al contempo opposta a quella del romanista che sulla cultura mediolatina volle vedere fondate le letterature europee, cioè Ernst Robert Curtius.
L’opera di quest’ultimo, Letteratura europea e Medioevo latino (1948) – la cui grandezza fu sempre celebrata da Dronke – portava le cicatrici di un’Europa martoriata dai carnefici che avevano preteso di «difenderne» purezze e radici attraverso l’uso, asservito alla «boria delle nazioni», avrebbe detto Vico, di vari miti delle origini.
I detriti concettuali prodotti dalla lunga discesa della terna herderiana – tradizione, identità, nazione – nella palude vasta e fangosa del Tramonto dell’Occidente di Spengler (1918) e poi nel pantano tossico del nazifascismo avevano avvelenato il terreno di un’intera epoca facendone germogliare un’ossessiva e pervasiva tematizzazione del problema delle origini. Dalle romanzesche immissioni di sangue latino portatore di arte e dissipazione nella linfa germanico-borghese (Tonio Kröger di Thomas Mann, 1903) all’indoeuropeismo-arianesimo delle lingue (vedi Les langues du Paradis di Maurice Olender, 1989), il demone dell’identità come essenza dispiegata nella storia consegnava a Curtius una cultura mediolatina dai tratti romantici irrigidita in unità tematiche in cui individuare i geni della letteratura europea.
Il tema registrò però anche imprevisti decentramenti, a cominciare da quello geografico e culturale operato da Warburg in relazione all’identità più «aurea» e classica della cultura italiana: il Rinascimento, ricondotto dallo studioso tedesco a lontane radici orientali ormai «inconsapevoli» (il ciclo dello Zodiaco affrescato a Palazzo Schifanoia a Ferrara), di effetto profondo anche sul mondo della filologia classica (in italia il necrologio di Warburg fu affidato a Giorgio Pasquali). Intanto, la cultura letteraria più raffinata superava del tutto il piano delle radici e delle origini per rivolgersi a quello apertamente non storico della misura estetica: la conferenza virgiliana What is a Classic? tenuta da T. S. Eliot a Londra nel 1944, con considerazioni non dissimili da quelle che Mann rivolge a Goethe, e Croce a Dante.
Il decentramento delle radici di immagini e idee «europee» compiuto da Warburg e lo spostamento dei classici dalla sfera storica a quella estetica di Eliot – figure entrambe fondamentali per Dronke –, sommati a punti di vista «altri», come quello scandinavo assorbito per via biografica (Ursula Dronke, moglie di Peter, è stata l’editrice del poema mitologico Edda), fanno il Medioevo che i suoi studi ci consegnano.
Dislocato sull’asse del platonismo, dai contributi sulla glossa timaica di Calcidio al commento integrale al Periphyseon di Giovanni Scoto Eriugena (cinque volumi per la Fondazione Valla tra il 2012 e il 2017), di tradizione orientale e meno acquisita agli studi, il Medioevo di Dronke è centrato soprattutto sulla questione della poesia concepita non sul piano tecnico – deprimente tendenza della medioevistica attuale – ma piuttosto epistemico. La concezione della poesia e dell’individualità poetica espresse dal mondo medioevale, un tema nutrito appunto di motivi platonici e tardo-platonici dagli snodi ancora in parte sommersi, è la pantera inseguita da molti libri di Peter Dronke, da Medieval Latin and the Rise of the European Love-Lyric del 1965 a Poetic Individuality in the Middle Ages: New Departures in Poetry (1000-1500) del 1970, sino a Sources of inspiration: studies in literary transformation: 400-1500, del 1997; ed è la chiave che egli sostituisce a quella tassonomica della topica di Curtius, con un’escursione che va dall’elegia latina (gli studi su Sulpicia) alla nuova contestualizzazione mediolatina dell’opera dantesca (Dante e le tradizioni latine medioevali, 1986, il Mulino 1990) e oltre.
Ricondotto sui sentieri poco battuti dell’incessante trasformazione delle immagini; liberato da origini ed «escatologie» culturali; còlto nel divenire, mai schematizzabile, dell’elemento pagano e cristiano, religioso e profano, filosofico e poetico, per Dronke il Medioevo è originario non perché contiene la «scatola nera» dell’Europa ma perché parla la lingua del mito (Fabula. Explorations Into the Use of Myth in Medieval Platonism, Brill 1974). Questa lingua – atteniamoci ancora alla definizione vichiana – non è più «boria delle nazioni» ma «universale fantastico», cioè intreccio tra concetto e immagine.
Proprio il nesso tra concetto e immagine, e la natura dell’immaginazione poetica, sono le due grandi questioni che il Medioevo di Peter Dronke – non più rigido schedario della topica poetica secolare ma snodo vivo delle idee di lunga durata sulla poesia – ci lascia in eredità: gli studi attuali, piuttosto depressi nella dimensione puramente tecnicistica delle retoriche e delle poetrie, della microstoria e del filologismo cieco, sapranno raccoglierle e farle fruttare?