E’ solo da quattromila anni che l’essere umano produce oggetti letterari; un nonnulla nella storia materiale dell’uomo, iniziata, con una piccola punta di selce, quasi tre milioni di anni anni fa. Eppure, proprio la scrittura ha contribuito in maniera determinante alla creazione del mondo così come lo conosciamo oggi, e in proporzione inversa alla sua progressiva smaterializzazione, dal segno inciso nella creta allo sfarfallio dei pixel. In The Written World The Power of Stories to Shape People, History, Civilization (Random House, pp. 412), lo studioso Martin Puchner, tra i nomi di punta della nuova critica americana (nato in Germania e docente di Teatro, Inglese, e Letterature comparate a Harvard) ripercorre in maniera brillante l’evoluzione della scrittura e della letteratura, in parallelo a quella dei supporti materiali e allo sviluppo della stampa. Ciò che distingue questo volume dalle varie storie della letteratura mondiale in circolazione è soprattutto la tesi per cui è la letteratura a produrre civiltà, non il contrario. E il nostro senso della storia, dell’etica e della religione è, paradossalmente, il frutto di opere dell’immaginazione. Siamo, insomma, quello che leggiamo.

All’origine della Weltliterature
Negli Stati Uniti il libro ha attirato anche l’attenzione di lettori non specializzati, cosa sorprendente se, come l’autore contribuisce a ricordarci, la letteratura ha da tempo perso centralità. Parte del successo di The Written World sta forse nel fatto che non è solo una storia globale della letteratura, ma anche il racconto avventuroso di una ricerca per comprendere l’origine e la diffusione delle storie al centro di diverse civiltà. Gli antichi racconti cosmogonici contenuti nel libro maya del Popol Vuh e nell’epica africana di Sundjata, insieme, tra gli altri, a La storia di Genji, Le mille e una notte, Don Chisciotte, Il Manifesto del partito comunista e Harry Potter, formano la topografia di questo mondo interamente scritto.

Puchner non si è limitato a leggere questi testi fondamentali della letteratura mondiale, ma ha davvero viaggiato dalla Mesopotamia alla Cina e dall’America centrale all’Africa, per dare al lettore l’impressione di trovarsi con lui tra le rovine di Pergamo, nel giardino tropicale di Derek Walcott, nelle foreste del Chiapas, o nel più rassicurante salotto affacciato sul Bosforo di Omar Pamuk.
Il libro si apre con l’immagine particolarmente evocativa di Alessandro il Grande che dorme nella sua tenda militare con un pugnale e una copia dell’Iliade sotto il cuscino. Secondo Puchner il potere di conquistare il mondo del racconto omerico ne fa per Alessandro una sorta di guida letteraria alla creazione del suo impero, una specie di «Gps letterario» ai tempi della pergamena. Per attivare il potere fondativo della letteratura, infatti, serve sempre il coinvolgimento di un lettore. L’origine stessa della nozione di Weltliterature, o letterature mondiale, si trova nella curiosità smisurata di un lettore appassionato come J. W. Goethe, che nel 1827, nella sua piccola Weimar, riflette sull’importanza di tradurre e diffondere la narrativa classica cinese per ampliare il limitato canone letterario eurocentrico.

Proprio la Cina occupa un posto di rilievo nella storia del mondo scritto messa a punto da Puchner, il quale non solo analizza le peripezie dei testi che formano il suo canone globale, ma ne stabilisce il valore sullo sfondo dell’evoluzione delle tecniche della scrittura. L’invenzione cinese della carta, e la sua diffusione in Occidente attraverso il mondo Arabo, rappresenta infatti la rivoluzione tecnologica che ha in seguito permesso lo sviluppo della stampa, un’altra invenzione cinese perfezionata, come è noto, da Gutenberg nel quindicesimo secolo.
Secondo Puchner qualsiasi cambiamento nella tecnica della scrittura dà modo ai testi fondativi di prosperare, fissando però necessariamente la loro natura.

asti pensare al caso emblematico della Bibbia di Gutenberg, o a quello meno conosciuto dell’Epica di Sundjata: la bellezza di questo corpus di racconti, che narrano la storia della fondazione dell’impero del Mali e sono stati trasmessi oralmente dai cantori griot, prima di essere trascritti, deriva in buona parte dalla creatività variantistica di questi performer che continuano a tramandare diverse versioni della storia, a seconda della loro famiglia di appartenenza. Anche l’Iliade, l’Odissea, l’Epica di Gilgamesh, e l’epica indiana Ramayana, tramandate da una tradizione orale, devono alla scrittura la loro sopravvivenza odierna. Il fatto che anche L’Epica di Sundjata sia diventata letteratura tramite le trascrizioni di antropologi occidentali condotte poco più di vent’anni fa non ci ricorda solo che le culture orali devono necessariamente adattarsi alle forme della scrittura, mapure che il processo dinamico tra racconto orale e tecnologie della scrittura non riguarda solo il passato.

Tuttavia, il variegato e affascinante mondo scritto che Puchner ci presenta, a dispetto della sua voce rassicurante è tutt’altro che immune da gesti violenti: la Bibbia gettata in aria dall’imperatore maya Atahualpa, frustrato dall’impossibilità di sentire la parola del dio degli spagnoli, provoca l’inizio del massacro che avrebbe decimato la sua gente. Il Popol Vuh, apice della letteratura maya – l’unica ad essersi sviluppata senza alcun contatto con il continente Euroasiatico – nasce dalla necessità di raccogliere i miti e le leggende della comunità per porre riparo non solo ai roghi dei villaggi, ma anche a quelli dei loro libri da parte dei conquistadores. La scrittura non rappresenta, dunque, solo una manifestazione del moto progressivo dell’umanità, ma a volte anche il limite stesso della civiltà.
È sintomatico che Puchner abbia scelto di introdurre la parola «mondo» nel suo titolo, come per altro un suo collega di Harvard, David Darmosh, che è uno dei principali sostenitori della nozione di world literature. Il fatto che la traduzione italiana di questa espressione venga solo di rado impiegata nel lessico critico dovrebbe far riflettere. La nostra ormai conclamata subalternità linguistico-culturale agli Stati Uniti dovrebbe ricordarci quanto l’imperialismo, che Puchner associa proprio allo sviluppo della world literature, non si sia limitato a generare colonie geografiche.

Imperialiasmo culturale
Pur motivato principalmente da ragioni economiche, esso si è «reso utile, persino necessario, per apprendere qualcosa di culture diverse», scrive Puchner: una affermazione che dovrebbe quanto meno allarmare. Proprio l’idea di impero, infatti, anche nell’accezione negriana di sovranità «postmoderna», carica di una estrema ambiguità l’idea di un mondo nostro, ossia di un soggetto collettivo equamente diffuso nel globo. Ciò complica notevolmente l’idea stessa di Weltliterature, che ha rinnovato la sua fortuna nelle contemporanee teorie di Franco Moretti, di Pascale Casanova e di Gayatri Chakravorty Spivak Spivak, sebbene nel dubbio – indifferente all’autore – che esista davvero un lettore globale e cosmopolita, e non – invece – una somma di lettori periferici e locali.