I Pokemon sono ovunque, in tutto il mondo. È sufficiente muovere alcuni passi fuori dall’ uscio per rintracciarli e catturarli, per poi allenarli e curarli. In ogni dove ci sono i loro novelli «allenatori», li si riconosce subito nelle città, nei parchi, sulle spiagge e persino in alta montagna, dove potrebbe annidiarsi qualche rara creatura leggendaria: persone di ogni età e sesso che camminano con lo smartphone in mano, lo sguardo che indaga la realtà che le circonda e quella rappresentata sullo schermo cartografata dal satellite, gli occhi speranzosi e curiosi e un’espressione fanciullesca da cui emerge il Peter Pan sopito in ciascuno di noi.

È arrivata in Italia solo il 15 di luglio l’applicazione stellare di Nintendo ma i teneri – anche quando maestosi – mostri inventati da Satoshi Tajiri nel 1996 sono una chiacchiera condivisa anche da chi dei Pokemon non ha mai saputo nulla e adesso già discute con dimestichezza dei volatili bicefali Doduo o dei coleotteri abnormi Pinsir.

Come ogni fenomeno Pokemon Go alimenta leggende metropolitane sorte da una verità deformata o dal nulla dell’invenzione pura, storie esemplari diffuse per diventare virali e poi estinguersi tra i milardi di parole delle rete: la presenza di Pikachu sulla tomba di un ragazzo estinto che tanto amò questo giallo personaggio, sparatorie attorno a desolate «zone di raccolta» e invasioni di centrali di polizia.

Non importa la veridicità delle notizie che alimetano il mito, ciò che è fondamentale è l’ampiezza di questa nuova mitologia che rappresenta una benigna invasione del virtuale nella quotidianità dalla portata senza precedenti e il sorgere di un nuovo desiderio di esplorare gli spazi del presente invece di fuggirli, rintanandosi nella propria solitudine di «nerd». Il confine tra l’immaginario e la realtà è infranto.