Eva è una giovane oncologa, è molto conosciuta eppure ha deciso di abbandonare la carriera in ascesa per studiare l’opera di un medico del passato, Johan Anmuth, che operava nella Prussia del 700, la cui ricerca nel nascente Regno orientato a una «nuova» ragione affermava anche la resilienza di quella cultura indocile, sfuggente alle regole e ai poteri violenti, espressione di un popolo senza diritto di parola. Negli anni il medico, che aveva avuto il privilegio di curare la famiglia del signore della zona, aveva raccolto le voci e i sogni de suoi pazienti auscultando oltre ai corpi i loro sentimenti, quasi che la malattia (come metafora?) si facesse cartografia di una condizione dell’umano. Lo aveva chiamato, questo volume, The Book of Vision, la sua potenza emozionale riusciva a superare i limiti e le convenzioni del tempo viaggiando lungo le traiettorie di desideri universali. È qui che si muove il film di Carlo S.Hintermann, con la produzione di Malick, regista a cui l’autore è molto legato, gli ha dedicato un film (Rosy-fingered Dawn: un film su Terrence Malick, 2002), un libro (Terrence Malick: Rehearsing the Unexpected, Faber&Faber, 2017) e il suo nome compare nelle unità italiane di The Tree of Life (2011). Ma The Book of Vision non è un film «malickiano» pure se punteggiato da omaggi amorosi al maestro: raccoglie tutte le passioni cinefile di Hintermann che è anche produttore (di Gitai, di Naderi), critico, musicista – col gruppo Errichetta Underground – un sincretismo che attraversa ognuno dei suoi fotogrammi traducendo il gusto del cinema non in citazioni ma in materia viva e personalissima.
Che cosa racconta dunque The Book of Vision a cui Hintermann ha lavorato diversi anni, e che ha inaugurato ieri la Sic, la Settimana della critica, sezione indipendente della Mostra? Affermando lo sguardo di un cinema italiano multilingue non semplicemente perché è girato in inglese e con cast internazionale, ma a partire dalla ricerca formale di una narrazione che si fa immagine.

LA STORIA oscilla appunto tra passato e presente, vita e morte, riflessi quasi speculari oltre il velo del tempo che nel libro del medico si contrae, si espande per farci ritrovare i personaggi a distanza di secoli. Sono loro o sono altri? Poco importa, ciò che li unisce al di là delle sembianze è la stessa tensione all’esistenza, un uguale conflitto rispetto al mondo in cui vivono, la battaglia per scegliere liberamente il proprio destino.

QUANDO abbiamo smesso di ascoltare il nostro corpo, quando è divenuto una macchina da riparare, potenziare, perfezionare di cui abbiamo perduto di vista i segreti, si chiede Eva (Lotte Verbeek) nella meravigliosa biblioteca che l’accoglie per le sue ricerche. Aspetta un figlio ma è anche malata, una disfunzione cardiaca che le impedirebbe di avere bambini. Lei però a questa maternità non vuole rinunciare nonostante il parere contrario del suo medico (Charles Dance, il Lord Lannister di Trono di spade): può il desiderio più della scienza? Poi c’è il ragazzo che Eva incontra nel campus, anche lui ha studiato medicina, forse qualcosa li unisce o li ha uniti o separati da qualche altra parte dell’esistenza.

È QUESTIONE di immaginazione non di dottrina, di corpi e di scrittura, di realtà e della sua invenzione. The Book of Vision parla di medicina, di scienza per trasformarla in fantastico – nella presentazione sul pressbook il regista dice che i suoi riferimenti sono stati Ritorno al futuro, La storia infinita, I Goonies con cui è cresciuto – dentro il genere, il fantasy, e in una variazione o più possibili di esso. E quei vissuti che lo popolano si fanno mondi, intrecciano le ere, le sovrappongono tra alberi di anime morte – il visual design è di Lorenzo Ceccotti – e improvvise apparizione nel presente.

IL CINEMA: se fosse questa la sua materia? Nella quale le direzioni si intrecciano, ci dicono del rapporto archetipo che c’è tra padri e figli, o tra generazioni nella trasmissione di un sapere, di un’arte e di un artigianato della messinscena di fronte alla sua tecnologia. Più che dicotomie e certezze piste, suggestioni come l’immagine della realtà che appare nella trama di questa fantasia: come restituirla, in che modo cercarne i bordi e le discrepanze? È una domanda che pone, a suo modo, il personaggio del bimbo settecentesco, figlio prediletto della nobildonna amante della poesia, che all’ordine paterno contrappone l’intuito, la capacità di guardare avanti e di scorgere quanto il dogma di suo padre non riuscirà mai a capire. Che poi è il senso e il sentimento dell’immaginario quello di «precedere» la realtà – Hintermann che ha girato documentari lo sa per esperienza, pensiamo al suo magnifico The Dark Side of the Sun: pure lì una malattia rara l’impossibilità cioè di vivere alla luce, porta che ne è colpito e coloro che gli vivono accanto a rimodellare la realtà così come è, la sua scansione temporale, il quotidiano secondo le convenzioni. Non è semplice, fa paura. Ma anche l’immaginazione spaventa forse perché se usata in un certo modo ha un potere rivoluzionario, nel Settecento di Anmuth come nell’oggi di Eva. Immaginare esprime anche un’idea di cura che è medica e molto altro insieme, che va a toccare le relazioni, le stesse di quei 1800 pazienti che il libro ha portato nell’eternità.

È AMBIZIOSO il film di Hintermann, che lo ha scritto insieme a Marco Saura e montato con Piero Lassandro, un’ambizione gentile, mai arrogante, anch’essa fuori del tempo. Che coincide con l’amore per la sua materia e col talento di rischiare senza esibizionismi, nel pudore di chi sa ascoltare il battito del mondo. È l’incanto del film, è la forza del suo autore.