Quando parliamo di sociale, ci riferiamo alle relazioni tra le persone – e, da qualche tempo, anche quelle con il vivente in genere – nella vita di tutti i giorni. Ma nel linguaggio politico, sociale si riferisce alle modificazioni di quei rapporti con l’azione collettiva: iniziative condivise da una pluralità di attori che indichiamo con il termine generico di movimenti.
Con il termine politico ci riferiamo invece in modo esplicito ai rapporti di potere, cioè alla gerarchia che contraddistingue l’assetto sociale: sia che l’azione politica sia diretta alla sua conservazione, sia che sia diretta alla sua modificazione.

Quella tra sociale e politico è una distinzione che nel corso del tempo ha subito molte modificazioni in relazione al contesto e oggi tende a sfumare: è venuta meno “l’autonomia del politico”, nel senso che la politica non viene più percepita come una sfera disincarnata, dotata di una sua logica interna, dove si confrontano visioni del mondo, obiettivi, strategie e tattiche differenti; viene invece considerata sempre più un aggregato sociale, dotato di una propria dinamica – a cui ci si riferisce spesso con il termine “casta” – da analizzare e spiegare in termini sociali: un ceto che ha il ruolo – e i connessi privilegi – di mediare il rapporto tra i centri del potere finanziario mondiale che dominano sull’economia globale e chi ne subisce il comando. Viceversa al “sociale”, inteso nel senso di insieme di movimenti per trasformare la realtà, viene da tempo riconosciuta una dimensione intrinsecamente politica, perché non si ritiene più possibile modificare quei rapporti, anche nei suoi aspetti più parziali, senza mettere in discussione il potere, la struttura gerarchica da cui dipendono.

Ma è comunque un salto logico identificare sociale con sindacale e politico con partitico (Marco Revelli, il manifesto 4 aprile), per poi dedurne che tra quelle due realtà possono solo intercorrere rapporti analoghi a quelli configuratisi nel corso del Novecento: il modello socialdemocratico, quello laburista e quello “francese”. Se questi “tipi ideali” sono accettabili in riferimento al secolo scorso, ora il sociale non è più riconducibile al solo sindacale; né il politico al solo partitico. Questa era peraltro la ragione che aveva indotto Revelli a teorizzare l’impasse del suo “Finale di partito”. Per questo il dibattito, se utile per capire da che cosa ci siamo per sempre allontanati, non può essere usato, come suggeriscono Favilli e Revelli, per definire le opzioni che abbiamo di fronte, né per raccomandare – troppo facile dirlo senza praticarlo – di “cercare ancora”.

La situazione odierna non è più quella in cui si era andato costituendo il movimento operaio dell’Occidente; né quella in cui aveva imposto alla controparte capitalistica e statuale le innovazioni dello Stato sociale: contrattazione collettiva con valenza normativa e gestione statuale dei servizi sociali: sanità, istruzione, pensioni e, in parte, abitazione.

La prima era caratterizzata da una contiguità fisica delle abitazioni dei lavoratori tra di loro e con il luogo di lavoro, sicché la vita sociale che si svolgeva nelle une faceva da retroterra anche alle lotte nelle fabbriche. Di qui la reciproca integrazione tra lotte rivendicative e sforzi per costruire, con il mutualismo e il movimento cooperativo, una alternativa sociale autonoma e autogestita alla miseria indotta dall’industrializzazione.

La seconda, che ha avuto il suo apogeo quando ormai le principali misure di autotutela promosse con il mutualismo erano state sussunte dallo Stato e gestite da entità pubbliche in forme universalistiche, aveva comunque trovato la sua base sociale nell’omogeneità della condizione lavorativa di una manodopera ammassata nei grandi impianti della produzione fordista.

Entrambi questi retroterra sono venuti meno, anche se nessuno dei due è scomparso del tutto. La condizione con cui deve misurarsi il “sociale” oggi è una elevatissima dispersione e differenziazione dei poveri e delle classi lavoratrici sia sul territorio che nei luoghi di lavoro. Ma non è solo l’isolamento, sia fisico che psichico ed esistenziale, a contrassegnare i rapporti sociali del giorno d’oggi; ancora più importante è il predominio culturale del pensiero unico; della competizione universale di tutti contro tutti e della “meritocrazia”, intesa come legittimazione del diritto del più forte a lasciare indietro e schiacciare il più debole.

Certo questa ideologia e la sua egemonia hanno una base materiale nella dispersione imposta dallo sviluppo capitalistico e dalla sua globalizzazione. Ma proprio per questo l’impegno della politica nel contesto odierno deve essere un lavoro di ricostruzione di relazioni sociali solidali e paritarie, mettendo al primo posto i diritti e la dignità delle persone: una pratica che riguarda soprattutto la costruzione di movimenti, le relazioni sociali dentro i movimenti e i rapporti tra movimenti di orientamento o ispirazione diversi.

Per far sì che quei movimenti, intesi nel senso più ampio, si diano una rappresentazione, e una rappresentanza, più ampia possibile della propria collocazione sociale e politica, e con ciò stesso dei propri obiettivi e delle proprie finalità – è questo il senso della coalizione sociale – e non perché si riconoscano in una rappresentanza politica precostituita.
Vano è limitarsi a guardare a un presunto “spazio a sinistra” del Pd che – affidandosi a una “topologia politica” che non ha riscontro sociale – si sarebbe aperto in seguito alla evoluzione dei partiti socialdemocratici europei, di cui il Pd è solo un caso estremo, anche se sintomatico. Quello spazio è in gran parte immaginario, o non “a disposizione” del primo arrivato per costruire qualcosa di solido; e meno che mai a disposizione di organizzazioni già in fila da anni, senza risultati, per riempirlo.

Quel “cercare ancora” deve essere un nuovo modo di fare politica; ma anche una nuova topologia politica, fondata su distinzioni come “alto” e “basso”, “uno” e “99 per cento”, popolo ed élite, poveri e ricchi, più che destra e sinistra. Le classi non esistono più? Sì, esistono, ma bisogna farle emergere alle luce del sole percorrendo strade nuove e non la riproduzione dell’ennesima riaggregazione dei resti della “sinistra radicale”.

P.S. A beneficio di Luciana Castellina e di chi ha letto il suo articolo (il manifesto, 7 aprile), preciso che non ho mai scritto che «i partiti sarebbero tutti ceto politico» (lo sono in gran parte i loro dirigenti più o meno permanenti e molti loro rappresentanti nei corpi elettivi e nelle società partecipate; non certo, dove c’è, la loro “base”), né che «le organizzazioni che operano nella società civile sarebbero tutte illibate» (ho scritto che hanno anche loro le loro piccole burocrazie). Sono inoltre radicalmente critico nei confronti «dell’idea negriana della moltitudine», come emerge da molti miei scritti (vedi per esempio: “Virtù che cambiano il mondo”, 2013). Sono peraltro convinto sostenitore della necessità e dell’urgenza dell’azione politica, come dimostra la mia partecipazione alla fondazione di Alba, di Cambiare si può (ma non di Rivoluzione civile) e de L’Altra Europa (ma non della sua attuale deriva burocratica e autoritaria).