Il Leone d’oro all’ultima Mostra di Venezia e ora le tredici nomination agli Oscar (comprese le categorie miglior film e miglior regista), agli occhi dei detrattori confermano la loro principale accusa al film e al suo regista, avere cioè annacquato l’horror in una soluzione cristallina di compiacenza hollywoodiana. Ma ne siamo sicuri? Non è che «l’amore vince su tutto» ha meno forza sovversiva di uno spavento «sanguigno» come codice vuole, specie se poi questo amore reinventa le regole dell’umano, e prima ancora dell’immaginario nel segno di un desiderio e di un piacere del corpo, di una sessualità goduriosa e felice oggi ancora più rivoluzionaria di fronte a media e abili imbonitori che stanno trasformando il movimento per l’eguaglianza e la libertà delle donne in una sorta di giustizialismo oscurantista…

The Shape of Water – La forma dell’acqua, il film di Guillermo del Toro indefinibile per sua natura come lo sono la Fanciulla e il Mostro: a che specie appartengono? A quale pianeta, gender, categoria? Di La Bella e la Bestia il regista messicano cambia la prospettiva tuffandosi in un altro mondo, forse ancora da inventare, ma la sua fiaba amniotica è piena di omaggi cinefili, il più esplicito al Jack Arnold di Il mostro della laguna nera, alla serie B di cui recupera la lezione creativa (e sovversiva) per rigenerarla.

È sopra una sala cinematografica che abita Elisa (Sally Hawkins) ragazza muta con cicatrici sul corpo e nel cuore. Lavora come domestica in un laboratorio militare di Baltimora e un giorno, nei sotterranei, scopre una creatura tenuta prigioniera nel laboratorio: è un «mostro» un diverso ma piano piano, tra un disco di Glenn Miller e le uova che la ragazza gli offre nella pausa pranzo accade qualcosa che la scuote dal suo silenzio e dalla sua terribile solitudine: amore anche se fa paura solo pensarlo che unisce quei due alieni della società, due paria come l’indomita collega di Elisa (Octavia Spencer), african american che si batte contro la segregazione o il suo migliore amico, artista gay (Richard Spencer) di cui nessuno vuole i dipinti, o quella spia sovietica, «il comunista» che però ama troppo la scienza e i suoi misteri per piegarsi ai ricatti dei governi nella sfida tra astronauti e cosmonauti verso la luna…

Siamo nell’America degli anni Sessanta, 1962, l’anno della crisi missilistica cubana, la superficie ha la patina vintage splendente di grandi sogni e Cadillac che, come recita nel suo mantra il venditore, proiettano l’uomo nel futuro. La profondità è il primato della guerra fredda tra Kennedy e Kruscev, l’incubo del pericolo sovietico e il terrore indicibile del diverso.

Ma quella Creatura che sul Rio delle Amazzoni venerano come un dio e il cui corpo viene martoriato dal fascista responsabile militare dell’istituto, Michael Shannon sempre perfetto come psicopatico, è davvero più spaventoso della «realtà» fuori, dei militari pronti a tutto per compiere i loro piani? Lì, sul confine tra mondo acquatico e terreno, tra umano e disumano, del Toro libera un nuovo immaginario ibrido, poetico – come già accadeva parlando della Spagna franchista in Il labirinto del fauno – in cui si fondono realtà della storia e forme mitologiche, due tensioni che attraversano tutti i suoi film.

E lo fa in un flusso di immagini d’epoca mai accessorie – i musical di Betty Grable e Carmen Miranda e i manganelli elettrici razzisti antisommossa – senza intrappolarsi nelle metafore o nelle poetiche della nostalgia: la sua è la leggerezza «politica» che trasforma il passato in presente, cambia le gerarchie sociali e lo stereotipo dell’eroe o dell’eroina, stabilisce priorità che vanno all’origine della rappresentazione. In quelle «forme dell’acqua» che non ne hanno di predefinite tutto diventa possibile, anche risvegliare le inquietudini con un quasi happy end (e vincere un Leone e forse qualche Oscar con un «genere» considerato anch’esso paria).