È davvero imperdibile il concerto del quintetto del pianista e compositore Randy Weston alla Casa del jazz domani sera nell’ambito del Roma Jazz Festival. Un artista – a dispetto dei suoi novantadue anni, ancora attivissimo e brillante nel proporre il suo jazz che sintetizza Africa ed Afroamerica in modo sublime ed unico. Siamo in presenza di un «maestro» che non ha rivali coetanei (e non solo), se si fa l’eccezione di Barry Harris che, però, privilegia la didattica. Weston, dopo Roma, sarà al jazz festival di Nizza (21 luglio) e in maggio ha ricevuto a New York il Founders Award dall’istituzione The Jazz Gallery. Where the Future Is Present, premiati anche Eddie Palmieri, Terri Lyne Carrington e Bruce Gordon. L’ultimo lavoro pubblicato di recente dal pianista – inciso per la sua sua etichetta Africanrhythms è il doppio cd Sound, trentanove tracce soprattutto dal vivo, in cui suona in solitudine.

Nella città eterna si presenta con un quintetto di rara forza espressiva, gli African Rhythms: Neil Clarke (percussioni e trombone), Alex Blake (contrabbasso), T.K. Blue (sax alto) e Billy Harper al sax tenore, con cui aveva suonato in duo lo lo scorso maggio a Vicenza. «La prima volta che abbiamo suonato insieme io e Billy – ci ha raccontato in quell’occasione – è stato per l’album Tanjah (1972). Il duo è un progetto più recente (il cd The Roots of the Blues è del 2013, Sunnyside, ndr). Mi piace il suo suono, l’immaginario (imagination) musicale del suo sassofono». Nel suo più precedente lavoro discografico, il doppio album autoprodotto nel 2016 The African nubian Suite con liriche di Jayne Cortez e voce narrante di Wayne Chandler, Weston parte dall’antica Nubia e – passando per la dinastia cinese Shang, la religione sufi e il blues – arriva al jazz del XXI secolo. «È ora di parlare delle civiltà dell’Africa e di un’eredità che ha coinvolto molti paesi: Stati uniti, Cuba, Brasile, Venezuela… L’antica civiltà egizia e l’antica civiltà cinese si sono influenzate l’una con l’altra, c’è anche una dinastia cinese – la Shang dinasty – ’black’». Dopo aver suonato con Min Xiao-Fen, sono andato al Guggenheim di New York per vedere la storia della Cina ed ho osservato delle maschere cinesi che sono davvero africane in vari tratti, come le labbra».

E aggiunge: «Sono molto soddisfatto di questo album perché originariamente avevo pensato ad una big-band con arrangiamenti ma non avrebbe valorizzato il sound individuale. Così c’è la musica Gnawa (Lhoussine Bouhamidy), lo spirito di Touba dall’Africa occidentale (Saliou Souso alla kora), la Cina (Min Xiao-Fen alla pipa)». Venti di guerra, la situazione negli Stati uniti e non solo: tutti segnali in controtendenza rispetto a una reale libertà ed eguaglianza: «Io ho comunque speranza per il futuro, il futuro è contenuto nel passato. Abbiamo avuto dei geni come Louis Armstrong, Duke Ellington, «Tricky Sam» Nanton, Eddie «Cleanhead» Vinson, Louis Jordan…, dei geni perché hanno creato una musica che non c’era mai stata prima. Quando gli Africani, i discendenti degli Africani, si sono incontrati con la storia europea hanno creato bellezza nonostante le difficili condizioni in cui erano costretti a vivere. È la musica la speranza e la risposta».