Può sembrare un paradosso, ma per capire bene il Babel Med di Marsiglia basta prima frequentare alcuni dei mercati della città: gli spazi del Marché di Rue de Capucines, Il Suq di Belsunce, la spianata de La plaine…il loro florilegio di colori, odori, foggie; le loro bancarelle di spezie nordafricane, frutti caraibici, peperoncini subsahariani, alghe dell’Oceano Pacifico e Indiano, aggiungono una spiegazione visiva,a quelle che sono le premesse «ideologiche» di questa rassegna e le sue risultanze concertistiche. «Ascoltare il mondo», il sottotitolo programmatico di questo «world music & jazz forum» giunto oramai alla tredicesima edizione, è un’altra indicazione importante per interpretare un evento che muove, in tre giorni, più di 2000 addetti ai lavori, presenta una trentina di concerti selezionati tra un migliaio di candidature, assembla musicisti da 32 paesi diversi e da tutti e cinque i continenti.

La trasposizione simbiotica, in chiave musicale, dei mercatini etnici della città. Una città che – come ricorda Manu Théron, leader dei Cor de la Plana – «è sempre stata un trampolino dell’immaginario, una fucina di dinamiche ascendenti e tutto questo grazie a chi ci è arrivato, a chi ha deciso di restarci e a chi continua a passarci di tanto in tanto». Certo nessuno dimentica le tragiche dinamiche della contemporaneità e Marsiglia stessa ha sviluppato negli ultimi anni una pericolosa quota di anticorpi fascisti, votati alla negazione dell’indole atavica di un luogo da sempre modellato sull’accoglienza. Ma la sensazione che lascia la tre giorni del Babel Med è quella di un afflato positivo, speranzoso, «ascensionale» appunto. Come se i fascismi non potessero fare molto sulle dinamiche alchemiche dei suoni, sulla voglia delle persone di scambiarsi opinioni, strumenti, pareri e idee…Quel che conforta al di là delle specifiche artistiche di una rassegna che è oramai insieme al Womex, il più importante appuntamento europeo dedicato alle musiche del mondo, è proprio la sua premessa di fondo. Non è poi così facile capitare in un festival in cui, come è successo a Marsiglia si possa ascoltare nella stessa sera la nuova musica sudanese di Alsarah & The Nubatones e il jazz sperimentale dell’israeliano Shai Maestro o dove, subito dopo il rways della marocchina Fatima Tachtoukt, passi da trionfatore anche il rock sfrenato dell’algerino Rachid Taha, uno che, come ha rivendicato orgogliosamente lui stesso nell’incontro stampa pomeridiano, riesce nel capolavoro di far innervosire sia gli islamisti che i razzisti destrorsi. Del resto, è vero, «sono tempi difficili». A ricordarlo è stato il leader di un altro ensemble vocale, stavolta corso, gli A Filetta: «E in questi tempi difficili – chiosa sul palco Jean Claude Acquaviva – ci vengono in soccorso i poeti: Primo Levi, Fernando Pessoa, Luis Aragon». Acquaviva e i suoi compagni di voce celebrano sul palco de la Salle des Sucres del Babel Med il quarantesimo anno di attività dell’ensemble.

Un’esibizione impeccabile e un progetto che affonda da sempre le radici nel cuore della Corsica, proprio come la felce da cui trae il nome. Ci sono molte altre cose da raccontare e da estrarre dal ricco cilindro del Babel Med 2017. Intanto il cambio di sede per la parte convegnistica, per le proiezioni filmiche e per gli stand degli addetti ai valori: non più ai Docks du Suds, dove restano i palchi dei concerti serali, ma al Hangar J1 sul lungomare de la Joliette. Un luogo che è davvero un trampolino sul Mediterraneo, un «trampolino sull’immaginario» direbbe Theron. Poi va segnalato il tentativo, ancora da perfezionare, di allargamento del bacino stilistico: non più solo world music, ma anche jazz e quelle che in Francia chiamano «musiques actuelles». Tentativo da perfezionare, perché se si può dire riuscito dal punto di vista della proposta legata agli showcase (il trio electro-jazz degli Onefoot si è rivelato ad esempio uno dei «coup de coeur» della kermesse), si tratta però di un travaso che deve essere implementato per quel che riguarda la quota di addetti ai lavori coinvolti, ancora monopolizzato dal bacino dei discografici, dei festival, delle associazioni world.

Tornando al carnet sonoro, sarà difficile dimenticare il clash poetico della vocalist e violinista estone Maarja Nuut, gli esperimenti audiovisivi di Chassol e quelli etno-jazz dei coreani Black String, l’effervescenza della capoverdiana Lura, l’incontro riuscito tra flamenco e chaâbi ovvero tra Juan Carmona e Ptit Moh, il perfetto marchingegno timbrico dei cubani Vocal Sampling, la contaminazione consapevole di tradizioni millenarie da parte di combo insulari come Pachibaba (Isola de La Reunion) e Paul Wamo (Nuova Caledonia)…C’è infine da registrare anche una convincente quota di sollecitazioni che a Marsiglia hanno rappresentato in modo più o meno esplicito il Made in Italy.

Innanzitutto la performance della Bandadriatica di Claudio Prima. E poi le belle immagini regalate ai frequentatori delle salette di proiezione de La Joliette e della Biblioteca de L’Alcazar da quattro documentari di cineasti italiani: la storia di Nick La Rocca firmata dal regista Michele Cinque, il ritratto su «Faber in Sardegna» di Gianfranco Cabiddu, lo sguardo analitico di Lucio de Candia sul folk bosniaco nella Mostar post-bellica e il racconto di una Lampedusa «vista ad altezza di bambino» ideato dal critico musicale Guido Barbieri insieme al compositore Paolo Marzocchi e trasformato in documentario da Michele Fumeo e Piergiorgio Mangiarotti.