Il fronte dell’architettura non riparte dal padiglione Italia, curato da Tam associati, in quanto nella definizione immaginata dal curatore della Biennale, Alejandro Aravena, l’architettura deve essere un mezzo per risolvere questioni complesse come i problemi delle periferie, dell’abitare in condizioni migliori, di progettare spazi per l’aggregazione sociale. Tutti temi che non rientrano nelle ricerche attuate dagli architetti italiani tanto meno nell’agenda politica. E questo nonostante l’architettura sia una disciplina che ha molto da dire sia sul riuso degli edifici esistenti nei centri storici, sia sul recupero sociale e architettonico dei quartieri periferici.

L’immersione totale in immagini, suoni, parole, display espositivi, subìti dai visitatori della Biennale veneziana, impone una riflessione sulla condizione dell’architettura oggi nei confronti della società. Ciò che emerge dai padiglioni nazionali, solitamente più interessanti della mostra internazionale, è invece una disomogeneità e ambiguità rispetto al tema scelto da Aravena. In molti casi, l’architettura non viene presentata come una possibilità concreta di migliorare le condizioni di vita delle persone, dalle megalopoli ai piccoli villaggi, bensì proiettando immaginari privi di ogni relazione con i temi attuali del dibattito politico internazionale ed europeo.

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Nessun padiglione ha immaginato, ad esempio, come risolvere il problema dei campi di accoglienza, pianificando una strategia urbana e pensando forme di insediamento temporanee, come è accaduto a Calais con la tendopoli improvvisata dai migranti. L’Europa istituzionale e culturale dimostra un profondo disinteresse verso la capacità dell’architettura di risolvere alcune primarie esigenze come l’abitare dei migranti.
In parte, l’Austria ha cercato di raccontare, attraverso la fotografia, il processo di riuso di abitazioni esistenti da parte dei migranti, ponendosi in contrasto con le azioni governative, ma con un allestimento che non rende appieno il senso del progetto. È il padiglione del Venezuela, invece, ad imporsi come uno dei più attenti alla collettività. Risponde meglio di altri alla questione cardine: quale sia oggi il fronte dell’architettura, nonostante la complessa situazione politica che lo sta scuotendo.
Curato da Rolando Gonzalez, presenta quindici progetti che sono raccontati attraverso più temi: le politiche del territorio, l’architettura come elemento fondativo, la democrazia della conoscenza, la costruzione di un paesaggio, la governance e l’organizzazione collettiva. Nella maggior parte, si tratta di micro architetture costruite all’interno delle favelas – dai campi per le attività sportive a piccole piazze, fino agli spazi ludici per i ragazzi, tutti caratterizzati da una tecnologia povera in tubi di acciaio coloratissimi, da cui gli architetti «impegnati» italiani dovrebbero imparare.

Il padiglione degli Stati uniti, curato da Monica Ponce de Leon e Cynthia Davidson, risponde in modo visionario al fronte contemporaneo della progettualità. La scelta di indagare Detroit, la città industriale di Henry Ford e della casa discografica Motown, pone la questione del riuso delle aree industriali attraverso lo sguardo visionario e formalista dei dodici architetti invitati. Greg Lynn, Andrew Zago, Present Future, Stan Allen, A (n) Office, Marshall Brown Projects sono solo alcuni degli architetti che hanno lavorato su quattro aree. «Il tipo di fronte dell’architettura che noi abbiamo immaginato – spiega Davidson – non è la nostalgia verso il passato di città industriale, ma il futuro. Crediamo nel potere dell’architettura per cambiare le cose. Non vogliamo costruire edifici ma un immaginario pubblico. Per ogni sito – continua Ponce de Leon – abbiamo chiesto agli architetti di lavorare con le comunità e con le organizzazioni no profit attivando un dibattito».

Indubbiamente, la scelta di un tema unico coincidente con una città industriale in profonda crisi, rafforza il legame tra il titolo del padiglione The Architecture Imagination e quello della Biennale Reporting from the front, affermando quanto sia necessario fornire ai cittadini una visione che li proietti nel futuro. Il caso Detroit è analogo a Ivrea (incomparabili per le loro dimensioni), differente è la scelta per rinnovarsi. Se la città americana punta sulla trasformazione urbana attraverso l’architettura, Ivrea, la città di Adriano Olivetti, cerca il rinnovamento attraverso il riconoscimento Unesco come città industriale del XX secolo, non attivando nessun processo di rigenerazione urbana.