Verida è una ragazza come altre, le amiche, il lavoro nel salone di bellezza, le chiacchiere, i selfie, la fantasia di apparire in qualche film, il desiderio di piacere. Finché i genitori non combinano il suo matrimonio, un uomo che non conosce, di ottima famiglia, per loro è una fortuna e non una violenza pure se l’amica del cuore la consola dicendole che se non le piace può sempre divorziare come ha fatto lei: «Solo le brutte hanno un marito solo» chiosa. E per arrivare bella alle nozze, come la tradizione vuole, Verida – l’attrice esordiente Verida Beitta Ahmed Deiche – deve sottoporsi al «gavage», la nutrizione forzata, come se fosse un’oca all’ingozzo prima di essere ammazzata. Cibo a ogni ora, di notte, di giorno, come facevano coi detenuti in sciopero della fame – le suffragette sono state ingozzate in galera, non a caso, durante le lotte per il diritto al voto delle donne – anche se questa pratica viene definita come una forma di tortura.

LA MADRE di Verida, come il più atroce dei carcerieri, è implacabile: cibo che si strozza in gola, litri di latte, e la ragazza è persino fortunata perché ad alcune, pure più piccoline,se sono troppo magre e dunque disprezzate, viene riservata un’educazione crudele da donne che le obbligano, pena punizioni corporali dolorosissime a mangiare, e quando vomitano sono costrette a rimettersi in bocca anche quello. La «femmina» deve essere tonda, piena, se la bilancia segna ottanta chili è ancora poco, e non è importante se questo comporta la diffusione dell’obesità tra le bambine con danni gravissimi alla salute. Il corpo della donna è sempre appalto di qualcos’altro, luogo su cui si esercitano le variazioni del controllo, in nome di religione, bellezza, tradizione, modernità. Quando si sceglie e quando si subisce? Quando il riflesso allo specchio rimanda un’immagine in cui riconoscersi e quando è invece il volto (e il corpo) di qualcun’altra? È su questo sentimento delicatissimo e insieme sfuggente, che riguarda la costruzione dell’immagine femminile, ma soprattutto la percezione del proprio corpo, dunque di sé in ciascuna che Michela Occhipinti costruisce il racconto del suo bel film d’esordio, Il corpo della sposa – presentato all’interno di Panorama.

DOCUMENTARISTA, autrice del molto premiato Lettere dal deserto una geografia del tempo tracciata sui passi lenti di Hari che in villaggi sperduti recapita lettere scritte a mano con l’inchiostro e la penna, Occhipinti ha girato in Mauritania – tra i ringraziamenti c’è Abderrahmane Sissako – perché il cinema è per lei uno strumento di conoscenza: «Amo il diverso, ciò in cui trovo similitudini anche se è lontano da me. Ci aiuta anche a capire che siamo tutti uguali, è incomprensibile che andiamo uno contro l’altro» dice. E quella che rischiava di diventare un’altra storia al femminile di oppressione in una società diversa dalla nostra nel sentimento di questa alterità condivisa assume una potenza universale: interroga il nostro tempo e il nostro mondo a partire, appunto, dal «corpo» della donna che è anche la sua parola. Senza retorica né sottolineature «grosse» Occhipinti dà voce alle lacerazioni del suo personaggio: Varida non si ribella pure se patisce, ingoia boccone dopo boccone quel cibo, si sottomette a un rituale che la devasta. Mentre mastica, mastica, mastica e viene pesata per controllare che aumenti di peso ben bene, quel cibo si deposita sul suo volto, le appanna la vista, confonde la sua stabilità. C’è chi per fare prima prende delle pillole «miracolose» rischiando di spaccarsi il cuore, e chi invece accetta con rassegnazione questo peso. La nonna le dice che è fortunata, ai suoi tempi dovevano fare tutto in una notte, e molte di loro morivano, anche sua sorella…
Occhipinti è accanto al suo personaggio con delicatezza, segue i suoi sussulti, il progressivo allontanarsi dal corpo che è anche allontanarsi da quello che è stato finora il suo mondo, all’improvviso diverso, ostile, sconosciuto. Chi è quel riflesso col viso stanco, gonfio, gli occhi segnati? E chi sono sua madre, l’amica del cuore, il ragazzo che le sorride e la corteggia con dolcezza un po’? Mentre il corpo diventa estraneo cresce nella giovane donna il desiderio di affermare la propria parola che è scegliere chi essere e come essere contro un’identità determinata dal controllo collettivo.

NON È una super eroina Varida ma una ragazza fragile, una persona costretta come ovunque accade, a confrontarsi con un’immagine che non le appartiene ma che detta le regole dell’esistenza. Attraverso la sua esperienza Occhipinti affronta quella comune alle donne, e alla loro rappresentazione, i «canoni» introiettati di cui l’immaginario è parte fondante. Celati dietro altre motivazioni, lontani dal desiderio della vita.