Di quale «disincanto» ci parla l’ultimo libro di Massimo Ilardi (Il tempo del disincanto, manifestolibri, pp. 140, euro 15)? La parola è molto impegnativa e vale la pena di ricordarne le origini recenti. Le fortune del termine disincanto risalgono a quelle condizioni di vita di estraniamento, stupore, spaesamento, descritte dai grandi scrittori e narratori dell’Ottocento di fronte al comparire della modernità e, in particolare, di fronte ad uno dei suoi aspetti più inediti e sorprendenti: la nascita della metropoli, con le sue luci, i primi incontri notturni favoriti dall’illuminazione pubblica, le vetrine dove vengono esposte le merci, lo spettacolo della folla. Mai, prima di allora, si erano osservate così tante persone a contatto ravvicinato tra loro e purtuttavia così estranee l’una all’altra.

È Edgar Allan Poe per primo a descriverci un inseguimento notturno nella città di Londra, ma soprattutto Charles Baudelaire a riflettere su questa nuova condizione di vita con la descrizione struggente della Parigi che cambiava; poi ancora Zola, Hugo, Simmel, fino a Walter Benjamin con le sue visionarie descrizioni dei Passages di Parigi (gloriosi antenati degli attuali: shopping center, mall, outlet). Il disincanto era quello stato d’animo che caratterizzava il flaneur che vagabondava solitario nelle strade della metropoli moderna affascinato dalla fenomeno della folla, stordito dagli choc con i suoi simili nelle strade di Parigi e Londra, abbagliato dalle vetrine. E molte cose del libro di Ilardi evocano questo antico stupore, questa nostalgia per qualcosa andato perduto.

Frammenti di scrittura

Ma qui si fermano le analogie tra il disincanto prodotto dal moderno e quello del sociologo-autore che osserva (e cerca di interpretare) il mondo cambiato-che cambia. Perché è infatti nel sottotitolo del libro, «Per dimenticare il passato, rimuovere il futuro, vivere il presente», che si svela pienamente la ricorrente e provocatoria tesi ilardiana che apre a polemiche interpretative e confronti non eludibili. Il tema affrontato, infatti, non è sulla natura del disincanto, ma intenzionalmente politico.

L’incipit del libro – che si snoda attraverso 27 frammenti di scrittura (come li definisce l’autore), documentativi e interpretativi del cambiamento – annuncia subito la tesi: «Non è uno scritto contro il Novecento e le sue categorie, ma contro chi si ostina a riproporle come chiavi esclusive di lettura del presente». Come a dire che per capire il mondo profondamente cambiato si devono lasciare da parte le vecchie risposte e provare a cercarne delle nuove, mettendo a serio rischio le nostre certezze e perfino le nostre conoscenze acquisite. Se il mondo liquido del contemporaneo è appiattito su un eterno presente che non cambia, questo, afferma Ilardi, non ci autorizza a rimanere avvinghiati a un pur (glorioso) passato che oggi è muto, incapace di fornirci vie d’uscita, quanto ad un altrettanto rigido e inalterabile futuro. E già questa è una tesi provocatoria, quantomeno da discutere col disincanto, appunto, che nulla è più scontato. Perché forse, al contrario, alla politica bisognerebbe restituire il senso del futuro, del progetto, ad evitare che queste, sia pur condivise, constatazioni dell’autore diventino una profezia che si autoadempie, la notte in cui tutte le vacche sono nere e perché il futuro diventi una sfida da raccogliere e non una disgrazia dalla quale difendersi con un pur nobile disincanto.

A fronte della frantumazione delle categorie del moderno (classe, lavoro, identità), Ilardi contrappone il fenomeno delle minoranze sociali che «non hanno più nulla di minoritario o subordinato e non sono più sulla difensiva ma hanno l’ambizione di possedere il mondo, di esercitare egemonia attraverso un punto di vista di parte che produce immaginario, culture e mentalità». E qui sembrerebbe cogliere, senza retorica né pregiudizi, alcuni fenomeni e comportamenti giovanili che si situano al di là della politica, che parlano nuovi linguaggi non più contaminati dalle ideologie del passato, che non si preoccupano di costruire futuri. Come quei giovani che sulla metropolitana attaccati ossessivamente al loro smartphone «digitano freneticamente. Non vedono, non parlano, non sentono. Sembra che per loro gli altri non esistano». «Sembra – afferma Ilardi -, ma non è così; (…) il distacco che ostentano nei confronti dell’altro è solo apparente», in quanto resta «quella ricerca continua di relazionarsi» che però, al contrario di quanto si propone, «li conficca sempre più passivamente nel mondo stesso e li allontana dalla possibilità di una critica lucida e spietata».

Le ingessate ideologie

Il disincanto diventa allora un dispositivo col quale tentare di conoscere il nuovo mondo, farne esperienza, senza sentirsene parte consenziente, prendendo anzi le distanze dal mondo impazzito, «dall’eccesso di incontri, per acquisire invece attitudine allo studio, abilità nell’osservazione e lucidità nella riflessione, tutte condizioni che per affermarsi ricercano appunto la lontananza, la solitudine, l’assenza». Ma forse le ragioni del passato (della sinistra) possono ancora tornarci utili se le spogliamo delle loro ingessate ideologie, delle loro astuzie machiavelliche e proprio il disincanto può diventare l’atteggiamento non rassegnato per scoprire nuove strade, nuovi sentieri ed evitare che esso perda la sua innocenza e scada nella rassegnata contemplazione senza passione.