Nella bellissima città barocca del tacco d’Italia, Lecce, si è appena concluso il Festival del Cinema Europeo, un evento che ha non poco a che vedere con le elezioni del 26 di maggio. Perché, come alla fine della sua carriera ebbe a dire autocriticamente Jean Monet, uno dei principali artefici della costruzione europea: «abbiamo sbagliato a cominciare dall’economia, dovevamo cominciare dalla cultura». Un riconoscimento tardivo di una grande verità: non si può dar vita a una comunità politica senza costruire un immaginario, una memoria, una cultura, un senso comune. Di cui il cinema è il principale portatore. Nonostante molta retorica, fra i 28 paesi dell’Unione questo «comune» , nonostante i voli low cost che hanno moltiplicato il turismo, non c’è quasi per nulla: fra uno svedese, o peggio un lituano e un greco o un portoghese di comune c’è poco. Come è pensabile costruire solidarietà e senso d’appartenenza in queste condizioni? Senza unificare una opinione pubblica frantumata che rende possibile mettere uno contro l’altro e preservare i peggiori pregiudizi reciprochi?

I DATI sul mercato audiovisivo europeo sono, da questo punto di vista, drammaticamente indicativi. Sebbene un po’ migliorati a partire dal 2000, in virtù di accanite lotte condotte da autori e produttori, restano gravi.Nei ’90 si raggiunse il peggio: il mercato audiovisivo europeo era stato occupato quasi al 90 per cento dalla produzione cinematografica americana, sicché quanto unificava gli europei era di fatto la invadente cultura d’oltreoceano, fino a far smarrire la specificità del nostro continente e dunque anche la ragione dello stare assieme che, in un’epoca in cui tutti commerciano ormai con tutti, non poteva più essere un mercato comune.

FU ALLORA che il presidente francese Mitterrand parlò di «genocidio culturale», e non aveva tutti i torti. Erano in corso in quel periodo i negoziati dell’appena costituita Organizzazione Mondiale del Commercio e, con la pretesa di rendere pura la competizione, gli Stati uniti chiesero che venissero cancellati tutti gli aiuti statali alla produzione di film. Un vero omicidio – aveva ragione Mitterrand – visto che fare un film in America o in Danimarca costa lo stesso ma quest’ultimo paese può ammortizzare l’investimento su un’area di 5 milioni di abitanti, gli Stati uniti su alcune centinaia, più il mondo intero dove , come ebbe a dire una volta Friedman, non ci sarebbero stati tanti McDonald se non ci fossero stati tanti Mc Douglas, gli aerei militari americani.

GRAZIE alla mobilitazione si riuscì a vincere temporaneamente la battaglia grazie all’introduzione nel negoziato commerciale di quella che fu chiamata «l’eccezione culturale», vale a dire il riconoscimento che la cultura non è una merce, o, perlomeno, è una merce anomala, e se un frigorifero prodotto in California e uno in Toscana non c’è molta differenza non è così per un film. «Il cinema non è quello che tu dici, cultura, è lo sporco business del danaro» fu la costante risposta che alle nostre obiezioni mi dava, sarcastico, il presidente dei produttori hollywoodiani, Jack Valente, quando io, come presidente della commissione cultura del parlamento europeo, rappresentavo la sua controparte.
Grazie a una serie di misure prese dall’Unione si riuscì a ridurre la massiccia presenza di prodotti americani; e però lo spazio lasciato fu occupato dal cinema nazionale, non da un aumento dello scambio intereuropeo: ogni popolo ha cominciato a rivedere i propri film, molto raramente quelli del paese vicino.

ECCO PERCHÉ un festival del cinema europeo è importante: difficilmente, altrimenti, si vedrebbero, e si potrebbe imparare ad apprezzare, film romeni o polacchi o tedeschi. Qui a Lecce, intere scolaresche, e una eccezionale quantità di ragazzi più adulti, scoprono come è fatto il Portogallo e come vivono, pensano, si comportano i loro coetanei ungheresi o bulgari. Di più: questo festival leccese ha il merito di dare dell’Europa un’immagine più appropriata di quella costruita dalla leadership di Bruxelles, perché presenti sono sempre anche i film di paesi che pur non essendo parte dell’Unione sono pur sempre Europa (e basti pensare alla Serbia, tanto per fare un esempio).Non solo. Quest’anno l’ospite d’onore è stato il grande regista russo Sokurov, un incontro straordinario e un’opportunità rara di vedere tanti suoi film. L’idea di includere la cinematografia della Russia in quella europea è una scelta più intelligente di quella compiuta dopo la caduta del Muro dall’establishment Ue, che invece di cercare un rapporto con quel paese, ha pensato bene di estendere i confini della Nato per mettergli i missili sotto il naso. Così aprendo la strada alla reazione nazionalista di Putin.

NELL’ULTIMO decennio le misure strappate a tutela del cinema europeo hanno comunque perduto molta della loro efficacia, perché la rete ha reso quasi impossibile un controllo. E tuttavia fra le non molte cose buone che il Parlamento Europeo è riuscito a conservare ci sono alcune sacrosante misure che è importantissimo difendere (e ovviamente rafforzare): «Europacinemas», la rete di sale cinematografiche che ricevono un contributo in quanto proiettano film europei non nazionali; «il Premio Lux», la sottotitolazione in tutte le lingue dei paesi membri di tre film ogni anno premiati da una speciale giuria; «Euroimages», un fondo di finanziamento alla produzione. Di nuovo si è ottenuta la direttiva sui Servizi audiovisivi che recepisce l’accordo che impone alle grandi piattaforme digitali (Netflix, per esempio) di proiettare almeno il 30% di pellicole europee e di investire nella produzione. Così come di aver inserito nel mandato della responsabile della politica estera Mogherini la promozione del cinema all’estero, vale a dire un finanziamento a questo scopo delle delegazioni dell’UE nel mondo.

NON HO PRESO la penna per lodare quanto viene fatto dalla Commissione a Bruxelles, anche perché in generale su questo terreno è per merito del Parlamento che è stata imposta un’iniziativa in questo campo (ed è merito della deputata Silvia Costa, ex presidente della commissione cultura, se si è evitato il minacciato taglio del bilancio nel settore). Lo scopo di questo mio scritto, sollecitato dall’ultima edizione, la ventesima, di questo festival del cinema europeo che con perseveranza e intelligenza viene promosso ogni anno a Lecce, è di richiamare l’attenzione, alla vigilia delle elezioni europee, sull’importanza della cultura per costruire a livello dell’UE quel soggetto collettivo che fino ad oggi non abbiamo prodotto e senza del quale ogni nostro progetto di mutamento delle attuali politiche di Bruxelles restano parole al vento. Ma anche per dire che quando si riesce a condurre una lotta, come è stato per il cinema europeo, un po’si riesce a vincere.