Un musical che celebra il mito e la storia di Hollywood; un piccolo film che racconta infanzia, adolescenza e l’età adulta di un afroamericano povero e gay; una tragedia famigliare livida e intimista, firmata da un drammaturgo newyorkese: alla vigilia dell’arrivo di Donald Trump alla Casa bianca, i tre titoli (LaLaLand, Moonlight, Manchester By the Sea) intorno a cui si è raccolto il consenso dell’industria che assegnerà gli Academy Awards, sembrano il prodotto di un immaginario gentile, idealisticamente multiculturale, quasi del passato, travolto dalla surrealtà e dalla brutalità degli eventi. Brutale (oltre che come al solito autocelebrativo) era senza dubbio il tweet con cui, ancor prima delle otto di mattina, il presidente eletto ha liquidato ieri la performance del suo successore alle redini del reality Celebrity Apprentice: «Arnold Schwarzenegger è stato travolto (distrutto) dalla macchina di rating DJT. Meno male che era una star del cinema…». Già turbolenta durante e dopo la campagna elettorale, la relazione tra Trump e lo star system dello spettacolo Usa è peggiorata, da novembre ad oggi, con il fuggi fuggi generale che ha accolto l’invito di partecipare alla cerimonia d’inaugurazione del nuovo presidente – diversamente dai Repubblicani al Congresso che stanno facendosi in quindici per dargli il benvenuto, persino le star della musica country, che si presume abbiano votato per lui, hanno schivato l’offerta di trovarsi sul palco delle celebrazioni, il 20 gennaio prossimo.

Con la rivolta  delle all American Rockettes (il loro management ha accettato l’invito – molte delle ballerine non voglio andare) resa ancor più pubblica dalla registrazione di un meeting sindacale, fatta uscire sulla rivista Marie Claire, e voci di malcontento anche tra le file della banda della scuola afroamericana Talladega College, Trump rischia che l’accompagnamento (musicale) sia ridotto al minimo – il Mormon Tabernacle Choir e, per l’inno nazionale, la soprano sedicenne Jackie Evancho, ex concorrente di America’s Got Talent. Lungi dal riflettere sulla sua radioattività, Trump (che ha già reclutato almeno tre veterani del reality nella sua amministrazione) scrolla le spalle: «Certa gente non capisce proprio il MOVIMENTO», ha twittato un paio di giorni fa, cogliendo l’occasione per attribuire a sé stesso il successo delle vendite del disco natalizio della giovane Evchenko. Se una buona dosa di antitrumpismo condirà sicuramente la cerimonia di premiazione dei Golden Globes, prevista domenica sera, e se (dopo aver annunciato una nuova sezione interamente dedicata ai film sulla tutela dell’ambiente) al Sundance Film Festival è già in programma una marcia delle donne, parallela a quella che si terrà a Washington, il giorno successivo all’inaugurazione, molto più misterioso è come l’immaginario dell’entertainment americano si adatterà, o meno, al nuovo corso. E al suo spirito anti-elitario.

Chi aveva già scommesso sulla vittoria di Hillary, come Homeland, che inizia la nuova stagione con un presidente donna, decisa a ridurre i poteri dei servizi segreti e del Pentagono, di fronte a un’amministrazione piena di generali avrà molto da riscrivere. Con il grande ritorno in auge della Russia, giocherà invece sul sicuro una delle serie più geniali degli ultimi anni, The Amerikans. E, per chi -dopo venti stagioni- avesse data per superata la feroce sitcom dei libertari Trey Parker e Matt Stone, le ultime dieci puntate di South Park avevano previsto tutto quello che è successo – Trump, hackers, fake news, la crisi del politically correct e (sotto forma di palline viola tra le California Raisins e i Minions, chiamate member-berries) la pestilenza di nostalgia che ha reso possibile Make America Great Again.

Più difficile – visti i tempi di produzione dilatati- ipotizzare come il cinema immaginerà/ ritrarrà questa nuova America -stretto com’ è tra i cartoon, la serialità a megabudget dei supereroi (ormai tutti afflitti da un’epidemia di esistenzialismo) e una produzione indipendente assorta in stessa, e molto sensibile al linguaggio e ai modi delle identity politics. Oltre a Eastwood (che ahimè – morto Charlton Heston- si tira sempre fuori come l’unico repubblicano, presentabile, a Hollywood), a Mel Gibson e al sottovalutato esempio di 13 Hours, di Michael Bay, il mainstream, di recente, non si è occupato coerentemente dell’America bianca, maschile, piccolo borghese, arrabbiata e populista dal cui rigurgito è uscito Donald Trump. Con l’eccezione di Peter Berg, un autore il cui cinema grezzo, macho e non ironico, non piace molto oltreoceano, ma sembra scaturire proprio dallo spirito della Rust belt made in 2016.

Dopoi il successo, nel 2013, di Lone Survivor, sempre in tandem con Mark Wahlberg -che da rapper e modello di Calvin Klein oggi è una delle poche star blu collar, dotata non a caso di un reality televisivo «di famiglia» – l’attore/regista newyorkese ha infatti realizzato ben altre due storie dedicate agli eroi/lavoratori taciturni, muscolosi, antiautoritarii e tutti d’un pezzo a cui Trump sembra rivolgersi nei suoi comizi -meno la rabbia, il razzismo e la misoginia. Uomini così anni cinquanta – poliziotti, meccanici, infermieri, operai di pozzo petrolifero – che esistono nell’America di Deepwater Horizon o di Tamerlan e Dzhokar Tsarnaev, ma sembrano miracolosamente non scalfiti dal potere corrosivo delle Breibart news, delle Wikileaks o della minaccia di un presidente donna, e che non appaiono indottrinati da Fox News. Dopo Deeepwater Horizon, anche il nuovo film di Peter Berg, Patriots Day, è infatti tratto dalla cronaca -quella dell’attentato alla Maratona di Boston, avvenuto il 15 aprile 2013.

Filtro della storia  è il personaggio (immaginario) di Wahlberg, ruvido detective della omicidi che mal sopporta l’autorità e che per punizione è mandato a supervisionare la security al traguardo e poi conduce in parte le indagini e la caccia finale ai fratelli Tzarnaev che include uno scontro notturno a base di bombe e pistole e un interrogatorio (alla moglie di Tamerlan) che celebra lo spirito del Patriots Act. Berg che quest’anno è stato produttore anche di un altro sintomo cinematografico dell’America «lasciata indietro», Hell or High Water, è un regista d’azione efficiente, plastico, (fortunatamente) poco incline ai fronzoli e al lirismo nostalgico, quasi schivo, come i suoi protagonisti. Il suo è un cinema facilmente etichettabile come «reazionario», ma che non ha la qualità manipolatrice della propaganda e che, alla luce del presente, è molto più curioso e interessante di quello che sembra. Sottovalutarlo, come si è visto in politica, è facile quanto controproducente.