Art or sound, a cura di Germano Celant, è stata inaugurata la settimana scorsa a Venezia presso la Fondazione Prada, a Cà Corner della Regina. Difficile uscire dalla mostra e riuscire a descriverla, a raccontarla: si tratta di un’esperienza totalmente immersiva, collocata in un tempo sospeso che ha inizio esattamente nel momento in cui, al termine della scalinata, si apre la porta a vetri del primo piano nobile del palazzo, e che ha fine quando usciamo da Ca’ Corner per rientrare nelle strettoie veneziane. Un tempo rubato alla percezione ordinaria, alla modalità con cui siamo abituati a riconoscere e sintonizzare i nostri canali sensoriali.
La porta con i vetri intarsiati è una soglia: una volta dentro si fa parte di un set, di un’insolita sceneggiatura disegnata da oggetti vari che suonano autonomamente. Sculture floreali colorate che producono suoni, o grammofoni a forma di fiori, lucenti gabbie dorate che imprigionano uccellini cantori, carrozze che misurano le distanze percorse attraverso il suono, orologi animati da pupazzi con le fattezze di musicisti: la prima sala è una stanza delle meraviglie, immersa in un’atmosfera in cui l’incanto difficilmente riesce ad affrancarsi da un senso di straniamento, in cui lo stupore a stento riesce a liberarsi dal perturbante.
La sensazione uditiva e quella visiva si sovrappongono, fino a confondersi: una volta entrati nella mostra apparteniamo ad una realtà dalla percezione aumentata, in cui l’immagine e il fascino perverso degli oggetti esposti viene trasmesso sia a livello visivo che, e soprattutto, a livello uditivo. Il lavoro si inserisce all’interno «di una svolta dalla concezione espositiva dell’arte dove la dittatura del vedere lascia posto ad una democrazia che include la multisensorialità» spiega Celant. In questo senso si spiega il significato del titolo Art or sound, in cui la disgiunzione «or» distingue e separa i due termini senza alimentare antagonismi, ma piuttosto stimolando un dialogo tra le due realtà, che riescono a contaminarsi fino a far svanire quei contorni che ne definiscono le rispettive identità.
È su questo piano che agiscono gli oggetti in mostra, in particolare quelle opere che indagano gli aspetti iconico figurativi del suono, riuscendo a scardinare gli equilibri e la consapevolezza del visitatore nel saper riconoscere e sintonizzare i propri canali sensoriali. Lo stesso allestimento non tradisce le ambizioni della mostra e si allinea al continuo processo di sconfinamento tra stimoli sensoriali differenti: nel progetto del designer Michael Rock e dello studio 2×4, si allude alla trasposizione grafica del suono, e la collocazione delle opere sembra imitare quella delle note sul pentagramma, riproducendo uno spartito virtuale. Il Pianoforte Optofonico (W. Baranoff- Rossiné, 1920-23 ricostruito nel 1971) che suona concerti luminosi proiettando immagini in movimento al ritmo della musica, o la Rappresentazione Plastica di alcune battute di una fuga di Bach (H. Neugeboren, 1928, ricostruito nel 1966), o ancora la proiezione/scultura che ruota su tre livelli imitando la struttura melodica di un canone (A. Argianas, A demonstration of may views as one, 2009) lavorano sulla trasposizione del suono in immagine. Queste opere traducono un’intuizione innata, spontanea, che tutti almeno una volta abbiamo avuto: quella di rintracciare l’aspetto del suono, di visualizzare le linee melodiche ma senza ricorrere a dei codici convenzionali, senza irrigidire l’immaginario musicale nell’uso di segni convenzionali e modalità codificate.
Il rapporto tra suono e immaginario, tra stimolo uditivo ed elaborazione dell’incanto viene liberato, nel lavoro di Celant, e presentato nei suoi momenti più «creativi», aperto alle libere associazioni, alle analogie, disponibile al caso, al non sense e all’aleatorietà. E dunque non sorprende, nella sala al secondo piano nobile, trovarsi di fronte ad un pianoforte fatto a pezzi e ricomposto con frammenti di una motocicletta (entrambi targati Yamaha) nell’opera The spirit of Yamaha di Arman del 1997, o ascoltare alcuni brani di musica suonati da un motorino che, senza alcun criterio, aziona i resti di radio smontate e rimontate (J. Tinguely, Radio Wnyr nr. 15, 1962). Il suono viene indagato anche nella dimensione narrativa, nella capacità di raccontare storie private e brani biografici. In Recuerdos (T. H. Bøe, 2014) alcune scatole di legno, simili a dei porta gioie, custodiscono piccolissimi oggetti personali, monete, fotografie, biglietti da visita etc…che vengono toccati e dunque suonati, durante i concerti, usando la scatola come cassa di risonanza. Ogni oggetto ha una sonorità differente, e dunque ogni ricordo, in esso custodito, trasmette e declina immagini acustiche differenti.
È un’atmosfera irreale quella che si respira nella varie sale della mostra, impregnata di sinestesie e di sovrapposizioni, dove si fatica a capire quale sia la soglia del reale e quella del surreale. Lo sforzo, tuttavia, non è richiesto: non servono filtri, interpretazioni, basta «sentire», comprendere può essere superfluo. Non a caso diverse opere rimandano alla sparizione del performer: due paia di scarpe ballano al suono di una filastrocca attivandosi e spegnendosi autonomamente (M. Kersels, Wary /Dick, Jane, 2010), altre due gambe di uomo si muovono meccanicamente, sincronizzate col suono di un’inquietante voce recitante (S. v. Huene, Der Mann Von Jüterbog, 1995-96), mentre violoncelli, tamburi e violini vengono suonati da mani invisibili. A partire dai giocattoli e dagli automi musicali del XIV e XVII, fino alle opere più recenti, la mostra offre numerosi esempi di sperimentazioni in cui il suono viene indagato nella sua autonomia, senza filtri autoriali o interpretativi, con l’unica suggestione aggiunta che può derivare dalla percezione visiva. In questo senso, gli automi musicali diventano i dispositivi più significativi per esprimere il rapporto tra suono e arte, tra la purezza di un’esperienza meramente uditiva o la complessità di un’opera declinata su più livelli, con una matrice creativa, una firma e un esecutore.