Il Natale come ogni festa «comandata» significa quasi per tutti cene, pranzi, veglioni, infinite sedute familiari, ansie da prestazione (culinaria), finta indifferenza, digestioni complesse, obblighi, accumuli ma (si augura) anche un piacere – che pure c’è o ci dovrebbe essere – di ritrovarsi malgrado tutto. Abbiamo provato a cercare sulle tavole natalizie quei cibi che non esistono più, o che forse non possono più esistere, che sono «luoghi del cuore», che si portano dietro un immaginario, di film o di pagine scritte e che raccontano a loro modo una resistenza. Non si tratta di celebrare le tradizioni nel loro senso arcaico ma di cogliere in piccoli gesti e nei lessici familiari della cucina e delle sue memorie, che nulla hanno a che fare coi Masterchef e i cuochi stellari (pentastellati?) e nemmeno le week o expo evento, spunti, richieste, conflitti, desideri che parlano del presente, laddove incontra il passato, e diviene parte o controcampo, o nuovo punto di partenza.

È UN PO’ COME se questi «cibi resistenti» possano illuminare il nostro tempo, quelle fratture e quel malessere che è diventato sempre più difficile interpretare, di fronte ai quali all’afasia della politica si è aggiunta quella degli immaginari, anch’essi troppo spesso bisognosi di appoggiarsi a certezze e interpretazioni «chiare».
Ma cosa ci raccontano le storie dei cibi? Ci dicono di lotte i e globalizzazione, di chi continua a combattere per la differenza, di come ogni sapore si porti dietro un mondo, una leggenda, un orizzonte, di quanto per uniformare, formattare, sterilizzare si distrugga, delle multinazionali che devastano foreste e natura per produrre cibi transgenici, della lotta di classe nella differenza di qualità che non tutti – sempre meno – si possono permettere, del bio e dei suoi finti incanti, della fatica e del piacere. Di cose dimenticate e di necessità attualissime, oltre il Natale (e le feste) , senza retorica né banalità.