La partecipazione di Aldo Tambellini a Codice Italia – Padiglione Italiano della 56/ma Biennale di Venezia, a cura di Vincenzo Trione – con Study of Internal Shapes and Outward Manifestations (2015) è un importante turning point nella storia dell’artista. Non solo perché presenta per la prima volta un’opera in cui confronta le potenzialità della materia filmica e fotografica con il medium digitale, ma soprattutto per il significato che questo invito assume nel suo percorso biografico. Nato a Syracuse ma italiano di formazione, newyorkese d’adozione, approdato al Cavs di Mit nel 1974 e tuttora residente a Cambridge, Tambellini si è attestato come uno dei pionieri dell’intermedialità propria delle pratiche sperimentali degli anni Sessanta e Settanta. Noto soprattutto per la Black Film Series e per le sue performance Electromedia, in cui univa pittura, scultura, arte cinetica e happening, il ricco corpus di opere dell’artista, nell’arco di un ventennio sintetizza le proprietà di trasformazione dei linguaggi nati dalle eredità dell’Espressionismo Astratto e approdati alle esperienze di Multimedia Art.

Attivo dal 1959 come pittore e scultore, e in seguito membro di spicco dell’Underground Movement e della prima generazione di videoartisti, Tambellini è l’anello mancante di un’ideale congiunzione tra le Avanguardie europee e l’Intermedia americano. Allievo di Ivan Meštrovic e collaboratore di Otto Piene fin dalla fondazione del Black Gate Theatre a Manhattan, l’opera riscoperta di questo autore troppo poco citato nella storiografia delle arti visive contemporanee, sta assumendo recentemente la giusta proporzione nella rilettura che musei e gallerie stanno dedicando alle arti performative.

Su questa nuova attenzione che all’autore dedicano le istituzioni europee, Tambellini, raggiunto a Cambridge, si racconta così: «Sembra che le nuove generazioni mi capiscano, e capiscano anche cosaio intendessi fare con la mia arte. Sono molto felice di lavorare con giovani curatori, critici e artisti, che stanno cercando una forma differente di relazione con le arti, anche con quelle già storicizzate. Per quanto mi riguarda, non vedo questa esperienza in Italia come un riconoscimento tardivo, piuttosto come un ricongiungimento al mio paese d’origine. Sebbene fossi conosciuto a New York fino agli anni Settanta, soprattutto in relazione al movimento underground, e grazie alle collaborazioni con artisti come il Living Theatre, Jack Smith, Kusama, adesso vivo una nuova rivalutazione del mio lavoro, che culminerà con la mia prima personale completa nel 2016 al museo Zkm in Germania e con un’edizione critica della mia opera per Archive Books, in uscita il prossimo autunno. Gran parte della riscoperta del mio lavoro è tuttavia arrivata negli ultimi anni, proprio grazie a due curatori italiani (la scrivente e Giulio Bursi, ndr) che lavorano con me a Cambridge e a Milano dal 2010 e che hanno curato e realizzato le mie mostre e le mie retrospettive a MoMA, Centre Pompidou, Tate Modern, così come le mie nuove opere, in particolare quella per Tate Modern e questa per la Biennale, Study of Internal Shapes and Outward Manifestations. Come per l’installazione presentata nel 2012, anche questo nuovo lavoro è stato interamente prodotto e realizzato in Italia, con tecnici e collaboratori italiani, come i musicisti sperimentali Andrea Belfi e Claudio Rocchetti, che hanno studiato il mio materiale d’archivio e che hanno un’ottima percezione di come la mia pratica si relazione con lo spazio installativo».

Ed è proprio a partire dalla relazione tra materiale d’archivio, segno pittorico e trasformazione dei dispositivi legati all’immagine in movimento, che Tambellini sviluppa per la Biennale un’installazione in dialogo diretto con le referenze storico artistiche che ne hanno influenzato la produzione (Vishniac, Munari, Leonardo, Kline, Man Ray). Un’opera nuova che spinge all’iper-contemporaneità forme e processi di composizione propri della sperimentazione analogica sull’immagine, che nella relazione con lo spazio architettonico definiscono il proprio senso e ne mutano la determinazione e il significato.

«Mi auguro che i visitatori della Biennale -continua poi Tambellini – si immergano in una esperienza dei sensi sinestetica, così come accadeva nelle mie performance Electromedia. Nei miei lavori, ho tentato e tento di creare un ambiente sensoriale che stimoli lo spettatore a lasciarsi alle spalle la distanza con l’apparato e ad abbandonarsi a una relazione più intima con l’audiovisivo, un’unione organica tra le referenze fisiche di un sistema percettivo conosciuto e l’inesplorato senso di perdita che avviene tra le immagini».