Il prossimo 2 novembre – tre mesi prima della scadenza – si rinnoverà tacitamente per altri tre anni il Memorandum d’Intesa tra Italia e Libia, voluto dall’allora ministro dell’Interno, Marco Minniti. Il Memorandum è tornato alla ribalta delle cronache già qualche settimana fa, a seguito dell’inchiesta con cui Nello Scavo, giornalista di Avvenire, ha dimostrato la presenza di Abd al-Rahman al-Milad, noto come Bija – «un signore della guerra tra i principali boss del traffico di esseri umani» – in un incontro al Cara di Mineo, nel 2017, tra autorità italiane e libiche. Scavo è oggi sotto tutela per le minacce ricevute dai trafficanti: la sua «colpa» è quella di aver voluto fare trasparenza circa i rapporti tra Italia e Libia sulla questione immigrazione.

DI TRASPARENZA vi sarebbe bisogno, specie prima del rinnovo del predetto Memorandum, ma al momento vige l’opacità assoluta. Pochi sanno, infatti, che, nel gennaio 2018, un componente dell’Asgi (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) ha chiesto al ministero dell’Interno di conoscere lo stato di attuazione del Memorandum. Com’è noto, quest’ultimo ha il fine – tra l’altro – di «arginare i flussi di migranti illegali» e impegna i due Stati a cooperare nella predisposizione di campi di accoglienza temporanei in Libia di «migranti clandestini». L’istanza di accesso era stata avanzata al Viminale ai sensi del Foia (cosiddetto decreto Trasparenza), che attribuisce a chiunque il diritto di conoscere dati e documenti in possesso delle pubbliche amministrazioni, per qualunque fine e senza necessità di motivazioni. Ma il diritto alla conoscenza è limitato fortemente da numerose eccezioni sancite dalla legge. E mediante il ricorso ad alcune di tali eccezioni è stata respinta la richiesta di trasparenza: quest’ultima – si è eccepito – avrebbe comportato un pregiudizio concreto a interessi tutelati dalla legge, quali «sicurezza pubblica» e «ordine pubblico», nonché compromesso le «relazioni internazionali» con la Libia. In particolare, è stato affermato che «le riunioni, i contenuti dei verbali, le mail scambiate costituiscono informazioni inerenti servizi operativi di contrasto all’immigrazione clandestina, sottratte all’accesso pubblico generalizzato». Peraltro, è stato dichiarato che, in attuazione del Memorandum, le autorità italiane avrebbero «proceduto solo alla costituzione del Comitato misto italo-libico» e ad alcune attività «di natura essenzialmente tecnico operativa in materia di controllo delle frontiere e di contrasto all’immigrazione illegale», quali «rimessa in efficienza di motovedette; traino; fornitura pezzi di ricambio; attività di formazione».

IL RIFIUTO di trasparenza del Viminale è stato giudicato legittimo sia dal Tar che dal Consiglio di Stato, e così sulle azioni concordate tra Italia e Libia è calata la cortina del «segreto». Ma alcuni passaggi delle sentenze meritano attenzione: secondo il Tar «pare addirittura stucchevole indicare» le ragioni per cui la trasparenza «dei verbali di riunione» e di altri atti può recare «grave e concreto pregiudizio alla stabilità delle relazioni» tra Italia e Libia, nonché a ordine e sicurezza pubblica. E il Consiglio di Stato ha giustificato l’espressione usata dal Tar – «stucchevole» – in quanto solo «formalmente brusca e non rispettosa dell’obbligo di motivazione»: le ragioni del rifiuto della trasparenza sarebbero «agevolmente comprensibili», «difficilmente confutabili» e, «alla luce della cronaca degli ultimi anni, può invocarsi addirittura il fatto notorio…».

Questi passaggi, se pur corretti, lasciano perplessi: perché di «stucchevole» o «notorio», circa l’attuazione degli accordi con la Libia, c’è poco o niente. Da tempo, infatti, fonti autorevoli sostengono la connessione tra la fornitura di assistenza tecnica e finanziaria alle autorità libiche da parte di quelle italiane e le gravi violazioni dei diritti umani che avvengono in Libia. Ma il cittadino non dispone di strumenti per conoscere e capire perché, nonostante il Foia (il decreto Trasparenza) sia preordinato a «favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche» (i soldi con cui si finanzia la Libia sono quelli dei contribuenti), le eccezioni da esso previste lo rendono inefficace in casi come questo. Eppure l’informazione sarebbe importante quanto meno per poter sottoporre a sindacato le azioni dei governi.

SOPRATTUTTO andrebbe spiegato all’opinione pubblica come, per giustificare il rifiuto di trasparenza, possa ancora invocarsi la tutela delle relazioni internazionali con un Paese senza una autorità di riferimento certa e consolidata come la Libia che, tra l’altro, non è un «porto sicuro»; o la riservatezza su azioni qualificate come contrasto all’immigrazione illegale, ma che si risolvono nelle gravissime violazioni dei diritti umani commesse nei campi di detenzione libici, secondo quanto attestano i rapporti delle Nazioni Unite. Fino a quando continuerà a prevalere la ragione politica, prima ancora che quella giuridica, su certi temi resterà il velo del «segreto», che solo qualche giornalista d’inchiesta potrà concorrere a squarciare.

* Giurista