Li hanno messi tutti nella stessa barca: tutti i leader mondiali delle grandi potenze, presenti alla Conferenza dell’Onu sul clima (Cop20), in corso a Lima, in Perù. Pupazzi di cartone che spingono il pianeta verso l’abisso: il primo ministro australiano Tony Abbott, il presidente Usa Barack Obama, il cinese Xi Jinping, il premier canadese Stephen Harper, l’indiano Narendra Modi, il presidente russo Vladimir Putin e il primo ministro giapponese Shinzo Abe. A margine della Cop20, i movimenti hanno manifestato e discusso. Hanno marciato in difesa della Madre terra. E hanno consegnato una proposta «a nome degli sfruttati e degli oppressi de mondo, messi a margine da un sistema economico e culturale che li sottomette a settori razzisti, fondamentalisti, maschilisti e padronali interessati a conservare il modello capitalista». L’Alba dei movimenti, un’articolazione che ha a Lima un controcanto istituzionale: quello dell’Alba-Tcp, l’Alleanza bolivariana per i popoli delle Americhe-Trattato di commercio dei popoli, i cui rappresentanti sono impegnati nel negoziato. Un asse trasversale che oggi compie 10 anni e che propone un’integrazione innovativa e solidale: sul piano politico, economico, educativo, ambientale e in dialogo permanente con i movimenti sociali.

La Conferenza avrebbe dovuto concludersi venerdì, ma non si è trovato accordo: malgrado i discorsi degli Usa e l’intesa realizzata a novembre tra Washington e Pechino. E malgrado la consapevolezza ormai diffusa che la soglia dell’allarme sulle conseguenze del riscaldamento climatico stia per raggiungere un punto di non ritorno. Così le discussioni sono andate avanti e dovrebbero concludersi oggi. «Ci siamo quasi, ma abbiamo bisogno di un ultimo sforzo», ha detto Manuel Pulgar, ministro dell’Ambiente peruviano. E i colloqui sono continuati a porte chiuse nella sede del Pentagonito, il ministero della Difesa. Fuori, si verificava intanto un autogol di Greenpeace che, con uno dei suoi blitz ha scritto uno slogan per le energie rinnovabili su un sito archeologico considerato patrimonio dell’umanità. Il governo peruviano ha denunciato il gruppo ambientalista e l’incidente non è rientrato nonostante le scuse ufficiali dei responsabili dell’organizzazione.

I rappresentanti dei 195 paesi devono licenziare un testo-base per la prossima Conferenza sul clima, che si terrà a Parigi nel 2015 e che dovrebbe sostituire il Protocollo di Kyoto. Secondo il parere degli esperti, per contenere l’aumento del riscaldamento globale a 2°C, occorre ridurre da qui al 2050 le emissioni di gas a effetto serra (Ges) dal 40 al 70%: principalmente quelle di CO2. Il documento di Lima dovrebbe contenere gli impegni concreti dei singoli paesi. L’asimmetria tra nord e sud e le alleanze politiche che la governano complicano però le discussioni, e disattivano i buoni propositi pronunciati anche quest’anno.
La Convenzione Onu sul clima, del 1992, riconosce «una responsabilità comune, ma differenziata» in base a due categorie di paesi, quelli sviluppati e quelli in via di sviluppo. E allora, come decidere i singoli contributi, come trovare regole comuni per valutare inadempienze e risultati? I paesi africani, che concorrono alle emissioni solo in minima parte (circa il 3%), chiedono precise garanzie. E la questione degli aiuti al Sud, insieme a quella dell’equità, resta centrale. Secondo un rapporto Onu, nel 2050 le spese necessarie per proteggere le popolazioni dei paesi in via di sviluppo dai rischi legati al cambiamento climatico potrebbero arrivare fino ai 500 miliardi di dollari all’anno: sempreché si ottenga il risultato di limitare a 2°C l’aumento del riscaldamento globale: «I costi per l’adattamento potrebbero arrivare a 150 miliardi di dollari all’anno nel 2025-2030 e tra i 250 e i 500 miliardi nel 2050», ha indicato il Pnue, il Programma delle Nazioni unite per l’ambiente.

Le azioni d’adattamento mirano a proteggere le popolazioni e le infrastrutture dall’impatto del cambiamento climatico come l’aumento del livello degli oceani, le inondazioni o le siccità. Tra i temi più difficili del negoziato, c’è il finanziamento di queste spese, insieme a quello per ridurre i gas a effetto serra. I paesi del Sud chiedono alle grandi potenze di rispettare gli impegni presi: erogare i 100 miliardi di dollari d’aiuto annuale da qui al 2020; ed esigono che per il futuro accordo, operativo dal 2020, i paesi sviluppati fissino scadenze e quote precise quanto ai finanziamenti che intendono garantire al Sud per aiutarlo a ridurre le emissioni, sostenerlo nei disastri inevitabili e contribuire al loro sviluppo sostenibile.

I paesi dell’Alba (il blocco regionale ideato da Cuba e Venezuela, e integrato da Bolivia, Ecuador, Nicaragua, Antigua e Barbuda, Dominica, Saint Vincent e Grenadine) hanno parlato con una sola voce. Nei 9 paesi abitano oltre 74 milioni di persone. Su una superficie totale di 3 milioni di kmq, il 49,5% è costituito da foreste, il 6,73% da terra coltivata. L’inedita integrazione regionale mette al centro «lo sviluppo integrale», l’uguaglianza sociale, il buen vivir e l’autodeterminazione dei popoli. «In questo accordo, si devono includere i 23 milioni di abitanti di Taiwan così come lo Stato di Palestina. Ma se, in base alle stime della Cepal, solo per le compensazioni di Nicaragua e Salvador servono 10 miliardi, come può il Fondo verde di 100 miliardi far fronte alle necessità di oltre 130 paesi in via di sviluppo?» ha detto il ministro Paul Oquist, rappresentante del Nicaragua. «Per fortuna – ha aggiunto – non abbiamo atteso le soluzioni da questa Convenzione. Dopo il ritorno al potere del presidente Daniel Ortega, con i fondi nazionali e grazie all’Accordo petrolifero di Alba-Petrocaribe, il governo ha costruito altre 1.000 case per rifugiati climatici a seguito di ricorrenti inondazioni. E siamo passati dal 25% di energia rinnovabile nel 2007 al 51% nel 2013, e arriveremo al 90% nel 2020». Dal Nicaragua, alla Bolivia all’Ecuador, anche i paesi dell’Alba hanno le loro contraddizioni, sia per le grandi opere che per i rischi insiti nell’economia estrattivista. Dal “socialismo del XXI secolo” arriva però la critica più forte al modello di sviluppo che sta portando il pianeta alla rovina. Ha detto ancora Oquist: «Il livello di concentrazione a cui è arrivato il potere militare, politico, economico e finanziario si basa su un modello egemonico di produzione, consumo e finanza insostenibile, entrato in crisi nel 2007-2009. Le soluzioni richieste dall’umanità implicano una trasformazione del modello e un suo superamento».

E mentre, a nome della Bolivia (che presiede il gruppo G77), il presidente Evo Morales ha chiesto ai paesi sviluppati «di non mentire e di impegnarsi davvero», il Vertice dei popoli e i movimenti dell’Alba hanno chiesto che nell’accordo venga inserita la denuncia contro la multinazionale Chevron-Texaco, per i danni inflitti all’Ecuador. Nella loro dichiarazione, i movimenti esigono che i paesi sviluppati riconoscano le responsabilità verso i popoli del Sud e saldino il debito storico ed ecologico contratto con quei paesi: «Nessuna azione per fermare il cambiamento climatico sarà efficace – scrivono – se non si promuovono politiche pubbliche in favore della piccola agricoltura famigliare e contadina. Continueremo nella lotta per cambiare il sistema… non il clima».