Non sarà una sentenza storica, come ha dichiarato il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio, ma senz’altro il verdetto di ieri stabilisce «che la Procura non ha commesso errori nella costruzione delle indagini». La sentenza di primo grado emessa ieri a conclusione del processo per i lavoratori dell’Ilva morti a seguito dell’esposizione all’amianto ed altri cancerogeni, ha visto 27 condanne ed una sola assoluzione, per un totale di 189 anni di carcere. Il reato di imputazione è gravissimo: disastro ambientale ed omicidio colposo in relazione al decesso di 15 lavoratori (su 31 casi esaminati di mesotelioma e cancro polmonare, patologie di cui soffrono ancora altri ex operai), avvenuti tra il 2004 e il 2010.

Secondo l’accusa l’amianto è stato usato per anni in maniera massiccia nella gestione pubblica e privata dello stabilimento siderurgico di Taranto ed è ancora oggi presente in alcuni impianti dell’Ilva. Nel corso degli anni, sostiene l’accusa, gli operai non furono formati ed informati sui rischi dell’amianto, non ricevettero sufficienti visite mediche, l’assenza o la grave negligenza nel disporre misure di sicurezza per preservare la salute degli operai dello stabilimento dalle fibre killer dell’amianto entrando in contatto con la pericolosa.
Il giudice della II Sezione Penale del Tribunale di Taranto Simone Orazio, che ha impiegato 10 minuti per leggere la sentenza, ha stabilito una provvisionale nei confronti dell’Inail di 3,5 milioni di euro, mentre i risarcimenti alle altre parti civili saranno giudicati separatamente. Al processo si erano costituiti parte civile l’Associazione nazionale mutilati e invalidi per il lavoro (Anmi), la Fiom-Cgil, la Uil, le associazioni Contramianto e Associazione nazionale amianto.

Nove anni e sei mesi per Sergio Noce e nove anni per Luigi Spallanzani, entrambi direttori dello stabilimento ai tempi dell’Iri: queste le pene più alte. Otto anni e 6 mesi a Pietro Nardi, dirigente dell’azienda pubblica ed oggi commissario della Lucchini di Piombino (indicato dai più come successore dell’attuale commissario dell’Ilva, Enrico Bondi, i cui primi 12 mesi di mandato scadono il 4 giugno). Sei anni invece per Fabio Riva, figlio di Emilio Riva, attualmente a Londra in attesa della decisione sull’estradizione chiesta dalla procura di Taranto nell’ambito dell’inchiesta per disastro ambientale, che vedrà l’udienza preliminare il prossimo 19 giugno. Sei anni anche all’ex direttore dello stabilimento di Taranto, Luigi Capogrosso. Non c’è più tra gli imputati Emilio Riva, scomparso il 30 aprile scorso. Unico assolto Hayao Nakamura, prima consulente, mentre era manager della Nippon Steel, e poi per un breve periodo ad dell’ex Italsider.

Il dibattimento è durato due anni, durante i quali sono stati ascoltati decine di testimoni che hanno raccontato le condizioni di lavoro nel siderurgico, centinaia i lavoratori, medici e tecnici interrogati, acquisiti fascicoli e atti per decine di migliaia di pagine. Udienze durante le quali i momenti di commozione, dolore e rabbia non sono mancati. Un confronto deciso tra gli avvocati dell’accusa e quelli della difesa, durante il quale si è ricostruito un lunghissimo periodo di storia industriale italiana tra pubblico e privato: quarant’anni a cavallo tra la metà degli anni ‘60 e l’inizio del 2000.

Le morti per esposizione all’amianto e a altri materiali cancerogeni sarebbero avvenute, secondo quanto ritenuto dall’accusa, dal 1978 ai primi anni del 2000. Nel processo erano inoltre confluite due inchieste condotte dal pm Italo Pesiri, nel frattempo scomparso, e dall’attuale sostituto procuratore Raffaele Graziano. Oltre alle posizioni delle persone fisiche, l’inchiesta aveva preso in esame anche il ruolo di due società: la Fintecna (pubblica) e l’Ilva.
Quel che è certo è che la sentenza di ieri, è il primo passo per restituire dignità e giustizia ai tanti lavoratori scarificati sull’altare del profitto. Ed ai tanti inconsapevoli cittadini ammalatisi a causa di un inquinamento selvaggio andato avanti per decenni.