Alfred William Parsons è stato un pittore di paesaggio e un illustratore inglese specializzato nella tecnica dell’acquerello. Relativamente conosciuto, e apprezzato nel corso della sua carriera anche come assiduo frequentatore della buona società e della cerchia intellettuale anglo- americana a Londra, è ora quasi del tutto dimenticato. Grazie ai suoi contatti con la folta colonia degli espatriati americani in Europa divenne, fra l’altro, illustratore per «Harper’s Magazine», e Henry James ebbe a dire di lui che, forse grazie a un soggiorno in America, Parsons imparò a rappresentare l’Inghilterra proprio come gli americani la sognavano e così come volevano che fosse. L’Inghilterra, nel modo in cui Parsons la dipingeva, era, secondo l’autore di Ritratto di Signora, esattamente quella che la società americana aveva ereditato dalla propria immaginazione e che, una volta attraversato l’Oceano, desiderava trovare.
La vera passione di Parsons era però disegnare giardini, e fu proprio lui a progettare quello di Lamb House, a Rye, nel Sussex, dimora di Henry James dal 1897 fino a quasi la sua morte. Fu ancora Parsons l’autore delle scene di Guy Domville (1895), il dramma di James risoltosi in un clamoroso fiasco. Per lo scrittore americano, che sognava di diventare anche un apprezzato autore teatrale, si trattò di un doloroso insuccesso, destinato a segnare il periodo più difficile della sua carriera e della sua vita privata, quello che Colm Toibin ha raccontato nelle pagine del romanzo The Master del 2004 e David Lodge in Author, Author, uscito lo stesso anno.
Poco prima James aveva dovuto infatti subire la sofferenza profonda legata alla morte di Constance Fenimore Woolson e, pur all’apice della propria fama di scrittore, si trovava in un periodo di transizione della sua produzione letteraria e stava meditando di abbandonare Londra, la città che aveva tanto amato e dove non si sentiva più a proprio agio. In una lettera scritta nell’aprile del 1898 a Caroline Fitzgerald, un’amica americana che da pochi anni si era trasferita in Europa, James definisce Londra come la città «dal cuore di pietra, dove i minuti del giorno sono contati e poche concessioni vengono fatte alla corrispondenza», e ancora, pochi giorni dopo, scrive di temere che la propria «impazienza nel sopportare la tremenda complessità di Londra aumenti con ogni ora trascorsa a combatterla».
Alla crisi e ai ripensamenti si aggiunsero anche, a partire dal 1896, i forti dolori alla mano destra, dovuti all’intensità della scrittura e a una forma reumatica che lo costrinsero, su consiglio del fratello William, ad assumere uno stenografo per dettare la sua voluminosa corrispondenza oltre che le proprie opere.
Come riporta Leon Edel nella sua monumentale biografia di James, nell’inverno del 1895 lo scrittore americano aveva visto a casa dell’architetto Edward Warren un piccolo acquerello disegnato dall’amico che mostrava la facciata di mattoni rossi di una casa georgiana a Rye, con una finestra bovindo sotto un arco, un tetto a punta e l’edera che si arrampicava sul muro: Lamb House.
L’estate successiva James la trascorse nelle vicinanze, vide spesso la casa e se ne appassionò; nel corso di una giornata in bicicletta con Warren i due ne parlarono ancora lungamente e poco dopo arrivò una lettera da Rye: Lamb House era libera per un lungo affitto.
«Telepathy does indeed mark the case for its own»: fu così che James scrisse a Warren per commentare la notizia che avrebbe modificato la sua vita.
Lamb House si trova sulla cima di una ripida strada di ciottoli che sale la collina di Rye fuori dalla High Street, sulla curva dove West Street si dirige verso la chiesa di St. Mary e, proprio come i disegni di Parsons sull’«Harper’s Magazine» potevano rappresentare l’esatta idea che gli americani di fine Ottocento avevano dell’Inghilterra, così il paese e la casa stessa danno ancora adesso l’idea del perfetto rifugio per uno scrittore in difficoltà e in cerca di un luogo da dove ripartire.
A poco più di un’ora e mezza da Londra, certamente oggi Rye è molto più facile da raggiungere che un secolo fa, ma già allora James definiva la distanza decisamente «non eroica da affrontare» e, in modo quasi maniacale, comunicava agli amici che invitava gli orari precisi dei treni, le stazioni da dove partire, Charing Cross o St. Paul, e quelle in cui cambiare, come ancora oggi a Ashford.
Inizialmente James non la trovava abbastanza grande, anzi tutte le stanze, tranne quella del giardino, erano decisamente piccole, ma con le numerose camere ai piani superiori, si rivelò certamente adatta per un uomo solo e sedentario come lui, e la Green Room, al primo piano, sarebbe stata il suo secondo studio, oltre a quello al piano terra, andato poi distrutto da un bombardamento tedesco nel 1940.
Il giardino era incantevole e la casa sembrava in buone condizioni. Il parere di Warren e di Parsons, che ispezionarono accuratamente anche gli esterni, fu decisamente favorevole. Forse le finestre retrostanti minacciavano la privacy del giardino, ma Parsons pensò che potevano essere schermate piantando dei pioppi e riparando così la vista, mentre alte graticciate lungo il vialetto avrebbero fatto il resto.
Parsons, grazie alla sua abilità nel rendere il paesaggio inglese così come lo si immaginava, trasformò il giardino in quel luogo dolce e protetto che lo scrittore americano cercava.
Prima della fine di settembre James aveva firmato il contratto di affitto: ventuno anni al prezzo di settanta sterline all’anno. Nel contratto si impegnava a mantenere le serre nel giardino, a migliorare e a preservare tutti i fiori, i cespugli e gli alberi da frutta. Gli venne chiesto anche di sostituire le piante e gli alberi, in caso si fossero ammalati, con altri uguali o di migliore specie, e nell’accordo era anche previsto che facesse ridipingere tutte le parti in legno della casa.
James, che fino ad allora aveva speso gran parte dei propri guadagni per i viaggi in Europa, aveva bisogno di nuove entrate per permettersi la casa, i lavori e i nuovi arredi, per i quali gli fu prezioso l’aiuto dell’amica Lady Wolseley. Proprio in quei giorni accettò quindi la collaborazione con un nuovo giornale pubblicato dal Times: «Literature», una sorta di precursore dei supplementi letterari.
Leggendo la descrizione che ne fa l’amica Caroline Fitzgerald in una lettera del 1908 a Lady Reay, si capisce quanto la casa, attualmente del National Trust, non sia quasi per nulla cambiata: «Una bella e antica villa signorile dall’aspetto sobrio affaccia sulle strade con le sue porte alte e strette e file di graziose finestre, mentre sull’altro lato un vecchio padiglione dalla struttura singolare, che domina tutta la via, termina con un’ampia finestra e un piccolo timpano; sul retro si estende un giardino secolare; all’interno, la casa è deliziosa con un “salotto” rivestito di pannelli – un vecchio rivestimento scuro – che dà sul giardino; vecchie scale di pregio con balaustre dipinte di bianco e mobili antichi in mogano, in buone condizioni, che di certo lui stesso vi ha fatto mettere».
È nota l’importanza che ebbero le immagini e gli oggetti nella vita e nell’opera di James. Fu quasi un’ossessione, un continuo sovrapporsi di esperienze artistiche che incrociavano le esistenze dei protagonisti dei suoi romanzi e dei suoi racconti, il più delle volte loro stessi pittori o scultori, costretti a confrontarsi con le proprie opere in un continuo gioco di rimandi fra la realtà e la finzione.
Ci si attenderebbe di trovare le testimonianze di questa duratura passione nella casa, ma la semplicità quasi assoluta di Lamb House le conferisce le caratteristiche di un luogo intimo e raccolto, staccato dal mondo, anche da quello dell’arte. È un contrasto che colpisce, soprattutto ricordando la straordinaria complessità e artificiosità raggiunta negli ultimi romanzi della cosiddetta major phase che sono stati scritti proprio in questa casa.
Oltre a un ritratto di James di Philip Burne-Jones, figlio del più famoso Edward, l’opera d’arte più nota è, in un certo senso, un’ulteriore prova di intimità. Nella primavera del 1899 James acquistò il busto in terracotta del conte Alberto Bevilacqua Lazise realizzato da un giovane scultore americano-norvegese che viveva a Roma e che secondo lui era giusto incoraggiare e sostenere: Hendrik Christian Andersen, col quale mantenne per anni una lunga amicizia.