Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, in Urss appariva ormai evidente che, con i piani quinquennali del governo sovietico, le società opulente occidentali che emergevano dalla crisi del secondo dopoguerra, difficilmente sarebbero state raggiunte sul piano della quantità e della qualità dei consumi. Ciò nonostante continuava a persistere l’idea, sostenuta dal regime comunista, che l’economia pianificata avrebbe superato quella americana in ricchezza e progresso. Da questa ipotesi nasce L’ultima favola russa (Bollati Boringhieri, trad. Carlo Prosperi, 484 pagine, 19 euro) dell’autore inglese Francis Spufford, testo complesso e geniale, composto da materiali narrativi eterogenei, che spaziano dalla cronaca al romanzo per assumere il carattere, esplicitato nel titolo, di una favola.
Attraverso le vicende di numerosi, veri o inventati personaggi, l’autore propone la storia dell’idea del «sorpasso economico» con un tono lieve e mordace, pur non offuscando il dramma di un paese che si ostina a credere nell’improbabile favola. Il sogno di un miracolo economico e di un benessere per tutti, come si può osservare, ha avuto nel novecento fino alle propaggini del presente, più di un prototipo, seppure fondato su opposte ideologie e presupposti. Lo stesso sogno si è insinuato nelle forme di vita di persone comuni, che vivono ai due capi del mondo: nelle Repubbliche Socialiste Sovietiche e nell’Occidente capitalista. L’ultima favola russa è un’allegoria, lo sfasamento del luogo è solo un gioco letterario, visto che il titolo del romanzo non lascia dubbi, l’epoca storica è chiaramente definita, compresa tra la fine degli anni ’30 e i ’60.
Tra i personaggi descritti realmente esistiti spiccano Leonid Kantorovich, matematico e premio Nobel per l’economia, che a 26 anni è già un luminare, il quale infastidito da un calzino fradicio riflette su come modificare e incrementare la produzione industriale. Mentre legge gli inutili manifesti stalinisti «La vita è diventata migliore, più festosa», spera di trovare davvero la soluzione per realizzare il sogno di un mondo migliore. Non mancano le figure di Nikita Kruscev, primo segretario del Partito Comunista Sovietico e Dwight D. Eisenhower, presidente degli Stati Uniti. L’intreccio tra personaggi reali e fantastici è, analogamente agli avvenimenti narrati, sempre al confine tra storia e finzione.
L’obiettivo è raccontare il mistero della fede in un’idea: che la pianificazione dell’economia sovietica potesse competere nei risultati con quella americana. Ma l’aspetto forse più interessante è il disvelamento di una storia pressoché sconosciuta, compiuto con leggerezza umoristica e precisione scientifica. Sempre «con beneficio d’inventario, perché questa è una favola» come scrive Spufford, aggiungendo: «ricorda, lettore, che la storia non si svolge nella vera e propria Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, ma in un reame vicino; vicino a quella quanto i desideri sono vicini alla realtà, ma anche altrettanto lontano». L’ultima favola russa non è semplicemente il racconto delle vicende di un ampia porzione di storia sovietica, è un romanzo collettivo, un saggio in forma narrativa di psicologia delle masse, di persone coinvolte e tenute in vita dall’idea di cui si è detto, pur nell’evidenza dell’infelice destino dell’idea stessa.
Uno dei temi trattati riguarda un terreno storicamente proibito agli intrusi: la cibernetica sovietica, la scienza dei sistemi di controllo. Qui l’autore indugia sui lati umani dei protagonisti, descrive i flirt e gli scontri politici che si susseguono in quei luoghi proibiti ai comuni mortali, mostrando disincanto ma anche rammarico, specie nel passaggio in cui medita su come l’egoismo e l’avidità possano fregare qualsiasi idea, non importa quanto bella. L’ultima favola russa è infine la descrizione di un’utopia, o meglio eteropia, mai concretamente realizzata e ora sparita per sempre. È la narrazione di un lungo viaggio che inizia come una fiaba, il quale nel corso degli anni si avvicina sempre più alla dimensione dell’incubo. La fiaba di un’avanguardia politica e culturale e l’incubo di masse disilluse per sempre. Divertente è la scena nella quale Kruscev, in viaggio diplomatico negli Usa, si trova dinanzi a un chiosco di hamburger e con ammirazione si rivolge a Gromyko: «è un’idea geniale, questo è cibo per i lavoratori!».
Il libro si chiude nella dacia di Kruscev, ormai in pensione. È il 1968, l’ex Presidente dell’Urss e Segretario del Pcus ascolta le notizie della rivolta di Praga e pensa: «il paradiso è un posto dove le persone vogliono vivere, non dal quale le persone vogliono scappare. Che razza di socialismo è questo?». L’opera risulta ben coesa, un esperimento narrativo felice nonostante le difficoltà dell’impresa, considerando la dimensione e l’impegno dell’argomento trattato. Per la cronaca, L’ultima favola russa ha vinto l’«Orwell prize» del 2011.