Oggi si parla di crisi del sistema Italia. Tra gli studiosi, ma anche all’interno dell’opinione pubblica, non ci si divide più sull’esistenza o meno di questa «decadenza italiana», ma soltanto sulle sue origini e sui suoi possibili esiti. Il declino di cui stiamo parlando è un fenomeno innanzi tutto economico (ma non solo), che va necessariamente letto in prospettiva storica. Per ragionare su questo tema è utile confrontarsi con un recente volume dello storico Emanuele Felice, il quale si è cimentato in una sintesi di ampio respiro sulla storia economica italiana (Ascesa e declino. Storia economica d’Italia, il Mulino, pp. 392, euro 18). Il suo libro abbraccia un arco cronologico lunghissimo, iniziando la narrazione sin dall’età antica. La gran parte del volume, tuttavia, si concentra sulla storia dell’Italia unita, periodo per il quale le statistiche economiche cominciano a essere meno precarie rispetto alle epoche precedenti, pur risultando fino a Novecento inoltrato ancora parziali e lontane dagli standard qualitativi a cui siamo abituati oggi. Il libro di Felice si basa su varie fonti, fra cui le nuove stime del prodotto interno lordo (Pil) italiano dal 1861 a oggi, a cui egli stesso ha contribuito nell’ambito di un lavoro di ricerca collettivo che ha visto per protagonisti diversi studiosi e varie istituzioni, come l’Istat e la Banca d’Italia.

Una inquietante regressione
Gli indicatori economici e sociali presi in esame da Felice permettono di trarre un bilancio nell’insieme positivo del processo di unificazione e del percorso sin qui seguito dall’Italia unita. Tuttavia, a una lettura più ravvicinata delle serie storiche, emergono le contraddizioni di questo processo, a cominciare dall’accresciuto e persistente divario fra nord e sud del Paese. Come nota l’autore, inoltre, la crescita del reddito italiano non si è distribuita in modo omogeneo nel tempo ma si è concentrata soprattutto nella seconda metà del Novecento, ed è stata particolarmente sostenuta soltanto fra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Infine – ed è questo l’elemento più preoccupante – i dati più recenti accreditano con sempre maggiore forza l’idea di un declino dell’Italia, segnalato innanzi tutto dal ristagno della produttività e del reddito, ma anche da un deterioramento degli indicatori di equità sociale. Rispetto alla crescita economica di lungo periodo dell’Italia unita, gli anni a noi più vicini appiano quindi sempre di più come un inquietante momento di regressione. Sarà il futuro a dirci se si tratta di una momentanea inversione di rotta o di una decadenza irreversibile.

Perché il percorso complessivamente progressivo sin qui seguito dall’Italia è stato così irregolare e contraddittorio? E perché rischia ora di subire una repentina inversione di rotta? L’interpretazione di fondo della storia economica italiana avanzata da Felice fa leva soprattutto sugli aspetti socioistituzionali, nonché sulla capacità della classe dirigente del Paese di essere all’altezza delle sfide poste dal contesto internazionale e dal cambiamento tecnologico. Verrebbe quasi da dire, traducendo in termini marxiani la lettura di Felice, che la sovrastruttura politico-istituzionale non ha seguito sempre con la velocità adeguata il mutamento della struttura economica, costituendo spesso un agente frenante.

Il giudizio sul ruolo svolto dallo Stato e dai partiti nello sviluppo economico non è una questione meramente tecnica, ma investe necessariamente la dimensione politica. A questo proposito va detto che alcuni punti dell’analisi di Felice non convincono del tutto: ad esempio il suo giudizio positivo sul cosiddetto «divorzio» del 1981 fra Tesoro e Banca d’Italia, un provvedimento che, se evitato, avrebbe forse potuto garantire ai governi un finanziamento del deficit a tassi d’interesse contenuti, impedendo l’esplosione del debito pubblico nel corso degli anni Ottanta.

L’illusione quantitativa
Da un punto di vista metodologico il libro di Felice sembra suggerire che per capire la storia d’Italia è indispensabile non solo conoscere le dimensioni quantitative dei principali indicatori economico-sociali, ma anche ragionare criticamente sul loro significato. L’autore, pur essendo un economista di formazione, sa anche prendere le distanze dagli esiti più discutibili dell’approccio cliometrico alla storia economica, imperniato sulla raccolta e la ricostruzione di dati statistici attraverso le moderne tecniche dell’econometria. Un’impostazione oggi dominante ma che in passato è stata giustamente oggetto di molte critiche, rivolte soprattutto all’illusione di poter sempre disporre di esatte misurazioni quantitative, anche per le epoche pre-statistiche, e all’idea di poter leggere il passato alla luce di una teoria economica intrinsecamente astorica come quella neoclassica. Se è vero che oggi l’uso del prodotto interno lordo come misura statistica dell’economia è oggetto di numerose controversie, a maggior ragione dovrebbe risultare azzardata e semplicistica l’idea di potere utilizzare il Pil per descrivere le dinamiche economiche dei secoli più lontani.

Un obbligato relativismo
Le potenzialità e i limiti del concetto di Pil per la storia economica sono stati recentemente oggetto di approfondita analisi anche da parte di Alberto Baffigi, uno degli studiosi che ha contribuito alla nuova ricostruzione storica del reddito italiano. In un volume appena pubblicato nella collana storica della Banca d’Italia Baffigi propone una guida all’uso del Pil per la storia economica che mostra il «retrobottega» della contabilità nazionale, svelando i «trucchi del mestiere» e le insidie in esso insite (Il Pil per la storia d’Italia. Istruzioni per l’uso, Marsilio, pp. 248, euro 22).

I numeri della statistica, come sembra suggerire l’autore, non sono un mero rispecchiamento del reale ma il frutto di un lavoro di classificazione e misurazione – implicante procedure di campionamento e stima – che presuppone precise opzioni teoriche e di metodo. Il Pil, in particolare, si rivela un dispositivo analitico storicamente determinato, affermatosi solo all’indomani della seconda guerra mondiale come indicatore utile alla programmazione economica. Data la sua natura, esso non può cogliere appieno quei processi di produzione e scambio che non passano per il mercato: pertanto, come indicava già a suo tempo Giorgio Fuà, si tratta di un concetto che va storicizzato e usato con sano relativismo.