Si agitano le mani di Antonio Iovine, cinquant’anni, camorrista e da meno di un mese collaboratore di giustizia. Sullo schermo della videoconferenza, nell’aula del tribunale di Santa Maria Capua a Vetere, appare appena il capo coperto da un cappello. Il corpo accompagna il racconto, mentre si può solo immaginare il suo viso da ragazzo cresciuto, oggi nascosto, invisibile. ‘O ninno, lo chiamavano, il bambino. Un po’ per i suoi tratti. O forse perché il suo battesimo di fuoco lo ha ricevuto appena ventenne, durante una delle più famose guerre di mafia del napoletano.

Era il 1984, quando i casalesi iniziavano l’ascesa verso i vertici mafiosi della Campania. Lo scontro – all’epoca – era con il clan Nuvoletta, legato ai Corleonesi di Riina, come già ha raccontato qualche anno fa Giovanni Brusca. «Fu De Falco quel giorno ad avvertirmi che la mattina presto dovevamo uscire per fare un servizio – inizia il racconto di Iovine, interrogato ieri dal Pm Ardituro – ed eravamo io, Bardellino, De Falco, Capoluongo, Zagaria». Nomi che allora dicevano molto poco al fuori dei confini della provincia di Caserta, boss a capo dell’organizzazione più feroce, in grado di lasciare centinaia di morti sulle strade campane, nel giro di pochi anni. «Ci riunimmo in una casa di San Cipriano, poi a Quarto, nella casa di un nobile, Chiacchia; arrivarono altri gruppi del napoletano, da Nola. Bardellino ebbe una chiamata, ci avvisavano che erano in quel posto di Marano. C’era una stradina di campagna in fondo a un piazzale, è lì che l’abbiamo ucciso», prosegue il racconto.

La voce stona rispetto a quello che si può immaginare. Snocciola gli altri omicidi, li elenca con un tono senza emozione, anticipando il suo ruolo che – dopo qualche anno – avrebbe assunto. Lo definiscono il ministro dei lavori del clan. Ha tenuto la cassa insieme a Michele Zagaria per anni, distribuendo i soldi, negoziando con gli imprenditori, raccogliendo i favori dei politici, a iniziare dai sindaci della zona. In fondo una sorta di ragioniere, abituato a mediare, a risolvere i contrasti con calma, freddamente.

L’intera parte iniziale della sua deposizione – la prima in un’aula di tribunale durante un’udienza pubblica – il pm Antonio Ardituro la dedica alla descrizione del suo ruolo nel clan. Appare subito chiaro come nella zona di Caserta si sia giocata una partita molto più grande di quello che era immaginabile fino a qualche anno fa. Dietro le lotte delle cosche c’era l’influenza di Cosa nostra. I corleonesi di Riina avevano imposto ai cugini campani l’eliminazione del nemico giurato Tommaso Buscetta. «Ci fu un incontro tra Bardellino e Buscetta in Brasile – racconta Iovine -, si erano preparati, lui e Mario Iovine, per ucciderlo. Ma Bardellino si fece convincere da Buscetta che i “cattivi” erano gli altri, i corleonesi. Quindi si assunse la responsabilità di lasciarlo andare. È da lì che si ruppero i rapporti tra Nuvoletta e Bardellino», con l’inevitabile seguito della guerra degli anni ’80.
Nel 1988 cambiano le alleanze, il gruppo di Antonio Bardellino – fino ad allora a capo dei casalesi – diventa il nemico giurato di Francesco Sandokan Schiavone. Dopo il regolamento di conti «i capi clan diventano “Sandokan” e Francesco Bidognetti “Cicciotto ‘e mezzanotte”. Sono loro che dopo il ’95 affidano il clan a me e Michele Zagaria, almeno fino al ’97».

«Chi è Antonio Iovine nel clan dei casalesi?», chiede quasi a bruciapelo il pm Antonio Ardituro, per definire con chiarezza il peso del nuovo collaboratore. «Io ho sempre avuto un ruolo equilibrato – risponde ‘o Ninno – mentre Michele Zagaria cercava lo scontro. Io cercavo sempre l’accordo e questo mi ha permesso di essere ascoltato da tutti. Zagaria lanciava il sasso e poi aspettava che io sistemassi le cose».

Attenzione alle parole, che difficilmente sono casuali o istintive in un boss del calibro di Iovine. Durante la sua deposizione punta – appena è possibile – il dito verso il suo ex amico, quel Michele Zagaria con il quale condivideva il comando. «Con lui ho iniziato ad avere delle discussioni nel 2006, avevo capito che l’amicizia la intendeva in maniera diversa». Segnali, sfumature che serviranno agli inquirenti per interpretare nel dettaglio la geografia criminale del clan, soprattutto la più recente.

Seguendo le prime tre ore della deposizione la mafia casertana raccontata da Iovine appare quasi banale, come la sua voce monocorde: «Tutti sapevano, tutti facevano orecchie da mercante – racconta – e quello che era illegale alla fine diventava legale, normale». Una nebulosa, un magma. Una formula dove il clan era solo uno dei composti, affiancato, rafforzato, moltiplicato dai sindaci e dagli imprenditori. Sangue e alleanze, piombo e complicità.