La gente corre, stretta tra carri armati e polizia. Si sentono gli spari. La telecamera trascina lo spettatore, gli consente di cogliere l’attimo che toglie o allarga il respiro… E’ il ritmo per immagini di Liliane Blaser Aza, affermata regista venezuelana, direttrice dell’Instituto de Formación Cinematográfica Cotrain: “documentarista – preferisce dire di sé – perché le parole importanti vanno usate con parsimonia, specie se vivi in un paese in grande trasformazione”. E sorride, gli occhi azzurri e un mare di lentiggini da indomita monella. In Venezuela l’abbiamo incontrata spesso, senza mai un appuntamento: nei teatri di Caracas affollati da giovani di periferia, nelle marce indigene o nei comizi operai.  Empatica e graffiante, saltando dai vicoli ai tetti come una gatta selvatica, coglie il canto della strada di un popolo “en revolucion”. E di nuovo precisa: “meglio dire trasformazione, non rivoluzione perché il nostro è un processo, uno strano ibrido che ha scommesso di cambiare tutto depotenziando dall’interno il vecchio stato borghese. Che però è sempre lì, coi suoi modelli e le sue trappole. Per orientarsi, non servono i soliti schemi, né quelli novecenteschi, né quelli europei. Da noi è tutta una mezcla, una mescolanza di idee, percorsi e identità. Mio padre era svizzero, mia madre venezuelana, figlia di un’antica famiglia ebraica sefardita, sua nonna era di Curacao. E siamo cugini dei Capriles, la famiglia del leader di opposizione. Solo che lui è anche Radonski, cognome che indica una radice aschenazita, dell’Europa centrale. Capriles è un’enorme famiglia di ricchi, poveri, sionisti, antisionisti…”

Nel suo lavoro ha raccontato alcuni momenti forti della storia recente venezuelana. Da quale prospettiva? Si considera una intellettuale “engagéé”?

Prima di Chávez pensavo a un lavoro più ideologico che politico, a una battaglia antisistema senza vincoli. Andavo alle riunioni dei gruppi di sinistra, ma non sono mai entrata in un partito. E intendo conservare una libertà di pensiero e movimento, esprimere accordo o disaccordo con le scelte di partito. Oggi, però, la situazione in Venezuela è complessa, si sente la responsabilità di custodire un meccanismo prezioso e delicato. In una situazione simile, avere un pensiero critico vuol dire apprendere a essere umili, fuggire le verità immediate e assolute. A volte è meglio tacere piuttosto che urlare, non come forma di autocensura ma per vedere bene prima tutti lati del problema e non far danni a un processo ancora fragile per molti aspetti.

Quali, a suo avviso?

La difficoltà di costruire un’altra società dentro il capitalismo, che domina la realtà e le menti, però soprattutto una situazione internazionale e mediatica avversa. I dipartimenti della Cia lavorano a pieno ritmo per trovare il modo di decapitarci. Se non lo hanno ancora fatto è in parte anche per questa nostra complessità che a volte facciamo fatica a capire anche noi. Pensa a quel che è successo durante il colpo di stato contro Chávez, nel 2002. Di solito, dopo un golpe di destra il popolo ha paura, si chiude in casa oppure passa alla lotta armata. Invece il nostro si è riversato immediatamente nelle strade, incurante delle pallottole, a chiedere il ritorno del suo presidente. Forse perché non abbiamo vissuto i tempi di Pinochet, non avevamo la memoria degli stadi e dei campi di concentramento. Comunque sia… Non torneranno perché non capiscono, ha scritto qualcuno a proposito della destra venezuelana. Abbiamo la fortuna di avere una destra abbastanza miope e incosciente della complessità a cui accennavo prima, che disprezza il popolo a cui chiede il voto. In un primo momento, ha denigrato quelli che chiamava “i senza denti e senza cultura”, che però rappresentavano oltre il 60% della popolazione. Poi ha detto che il popolo andava bene, ma che Chávez non era adatto a governare. Oggi dice di rimpiangerlo, perché almeno faceva ridere e sapeva manovrare le cose, mentre Maduro è un autista del metro che non ha consistenza.

Nelle urne, però, quella destra raggiunge percentuali ragguardevoli.

Lavorano sull’anticomunismo che ha ben seminato Romulo Betancourt e gli “adecos” durante i governi della IV Repubblica, quindi su qualcosa di ben radicato. Il “comunismo” del XX secolo ha avuto molti problemi, non mi piacerebbe vivere nel paese che descriveva Milan Kundera dove non si poteva neanche ridere dei propri errori. Lo difendevo perché l’alternativa era il capitalismo, però sono contenta che in Venezuela oggi sia diverso. Preferisco disorientarmi in questo tourbillon che pretende conciliare un po’ di Gandhi e un po’ di Che Guevara, di marxismo e di cristianesimo e rischiare il consenso un’elezione dopo l’altra. Io amo la pace e non la guerra. Quando Chávez gridava ancora “Patria, socialismo o muerte”, io mi son messa a scandire: “Mundo, socialista y vida”. E poi il nostro slogan è diventano “Vivremo e vinceremo”. Lui sapeva ascoltare, da grande leader. Penso che la parola “rispetto” usata dai movimenti degli Indignados sia la chiave per nuove relazioni sociali e per una dinamica più proficua tra il potere dal basso e quello che gestisce, dove uno deve vigilare sull’altro: non in modo poliziesco, ma fraterno. Però questo comporta problemi enormi, perché si devono fare le cose più lentamente, con un’enorme pazienza. E intanto il capitalismo bombarda le coscienze. Nella testa dei venezuelani arrivano messaggi schizofrenici: il buen vivir e la richiesta di possedere tanti oggetti, tante macchine che soffocano la terra… Le condizioni oggettive contano. Le urne non sono tutto, la storia insegna: chi ha molto denaro può vincere comunque la partita. E il popolo non sempre fa bene: secondo la storia cristiana, ha scelto di salvare Barabba e non Gesù… Accade che il popolo voti per il suo nemico di classe. E’ successo per anni in Venezuela, succede nel mondo, è questione di coscienza.

“Il modo migliore per dire è fare”. Perché pone questa frase di José Marti in epigrafe ai suoi lavori?

Bisogna essere conseguenti, dare un senso alle parole. Molti intellettuali sono talmente presi dal loro sapere che non vedono la realtà che vogliono interpretare. Due giorni dopo il golpe, il popolo era per strada, tutti ci chiedevamo cosa fare. Ero in vespa con la mia amica e collega Lucia Lamanna, stavamo andando a una riunione. Con Lucia realizzo gran parte dei lavori. Per dirla con Pasolini, lei fa più un cinema di poesia, io di prosa. D’istinto, lei lavora più sulla forma, io sul contenuto, ci compensiamo. Comunque, allora, la gente in strada ci ha spinto da un’altra parte e poi da un’altra ancora. Noi non ci siamo opposte, abbiamo seguito il flusso e ci siamo trovate al centro delle cose importanti. Questa è un po’ la filosofia della scuola Cotrain e il nostro modo di lavorare: abbiamo delle idee, certo, non siamo una tabula rasa, ma è la realtà a dirci quel che succederà, è lei a dialogare con le nostre conoscenze e i nostri pregiudizi, con la nostra soggettività. Ci sono almeno tre film, quello che uno pensa, quello che realizza e quello che il pubblico vede… Nel 2010 siamo andate in Grecia per partecipare agli scioperi e ci siamo imbattute nella Flottiglia per la libertà in partenza per la Palestina. E così è nato “ De Piraeus a Gaza”, di Lucia, e il mio documentario “Palestina, cronologia de una herida”. C’è una battuta che dice: gli specchi dovrebbero riflettere prima di riflettere… Il 27 febbraio dell’89 ero in strada durante la rivolta del Caracazo. L’esercito aveva sparato sulla folla. Filmavo gente che veniva a vedere se i parenti erano nella lista dei morti. In quel momento ho deciso di fare un film per restituire le immagini, non solo per registrare ma per denunciare. Però quelle terribili immagini le ho restituite alle famiglie a cui le avevo “rubate”, erano le loro immagini. Poi abbiamo saputo che i militari stavano nascondendo i cadaveri in una parte del cimitero chiamata La peste. Io e Lucia ci stavamo precipitando lì, dove sicuramente saremmo state uccise, non so come abbiamo fatto a fermarci prima…

E così è nato il documentario Venezuela, febbrero 27: de la concertacion al des-concierto. Perché questo titolo?

Il secondo mandato di Carlos Andrés Pérez si avviava a essere un altro governo all’insegna della concertacion, nell’alternanza tra centro-destra e centrosinistra che aveva governato dal 1958 escludendo i comunisti. Era iniziato con un grande concerto e con una fastosa cerimonia per l’assunzione d’incarico molto partecipata a livello internazionale. Subito dopo, il varo di un pacchetto di misure neoliberiste che provocarono una rivolta popolare. Il des-concierto è un concerto finito nello sconcerto. Anche in altri miei lavori gioco a decostruire le parole per svelarne significati nascosti. “1992: El des-cubrimiento (jugar o ser jugado)” parla della ribellione civico-militare del 4 febbraio, ma il titolo s’ispira anche all’anniversario dei quattro secoli dalla scoperta dell’America di Cristoforo Colombo: togliere la coperta per guardare cosa c’è sotto, per giocare o essere giocati. Chávez ha scoperto il gioco. Figurati, nell’89 i militari hanno sparato sulla folla, poi arriva un militare e propone una rivoluzione. Non sappiamo bene se è davvero di sinistra, però ha carisma e anche la sinistra rivoluzionaria come la Causa R si convince a candidarlo. Un uomo che ha rotto molti tabù, ha mostrato anche il suo lato femminile (il suo materno prendersi cura dei bambini, degli anziani) in un paese latinoamericano così maschilista. Che il popolo lo pianga tanto, che anche gli uomini dicano davanti alle telecamere “Chávez ti amo” è una mistica più complessa del culto della personalità modello sovietico.

E poi avete girato “Il fantasma della libertà o quanto pesano 3 mila tonnellate di uranio impoverito”, che parla della guerra coniugando storia, assurdo e poesia.

Sì, il titolo è un po’ come dire: di che colore è il cavallo bianco di Bolivar. In Afghanistan come in Jugoslavia o in Iraq quel che mi ha colpito è l’invasione del materiale radioattivo, il suo potenziale distruttivo anche per gli aggressori che lo portavano. Un fantasma si aggira per l’Europa, diceva Marx riferendosi al comunismo. Qui il fantasma è quello del neoliberismo che porta la “libertà” nel mondo con bombe e barbarie. Questo film è una co-regia con Lucia. Ora sto lavorando a vari progetti. Uno, d’inchiesta, riguarda i modelli che abbiamo usato nei film, anche in quelli comunitari, in questi 14 anni. Quanto abbiamo innovato in termini di forme narrative e di contenuti? Ci ho pensato sfogliando un libro per bambini che disegna una classe di bianchi e un bambino nero che guarda fuori. Al di là delle intenzioni dell’autore, il nero è sempre “fuori posto”, sempre altrove. Possiamo veicolare anche cose contrarie a quel che vogliamo costruire. E costruire una nuova coscienza è tutto un lavoro, e l’audiovisivo ha un posto importante in questo percorso: dobbiamo analizzare quel che stiamo facendo. Un altro progetto è un documentario, riguarda la crisi in diversi paesi d’Europa: per riflettere su quel che ci aspetta se dovesse ritornare la destra, e porgere lo specchio anche al Venezuela.