Se paragonata all’abituale offerta di fiction (e non solo) su Raiuno, e in generale nel servizio pubblico, L’amica geniale segna un netto stacco rispetto alla miriade di allieve, avvocatesse (vere o presunte), ragazzine incinte e solo per questo degne di essere narrate, poliziotti e pizzofalconi, suore, preti, un’ode della famiglia che manco Pillon – ben prima dell’insediamento di questo governo – presentandosi come un prodotto internazionale, più vicino a quelli che portano tutti noi, pur se costretti a pagare il canone Rai, alla fuga su Netflix e dintorni.

E QUESTO è la serie diretta da Saverio Costanzo (prodotta da Wildside, Raifiction, Hbo, TimVision) a cominciare dalla sua materia di partenza, la tetralogia di Elena Ferrante (edizioni E/O) tradotta, letta e amata in tutto il mondo, di cui ovunque si è parlato e si continua a parlare. La storia delle due amiche, Lila e Lenù, che inizia nella Napoli del dopoguerra, specchio di un’Italia dove essere poveri e donne era più che una condanna: all’ignoranza – niente scuola si deve «faticare» – al lavoro nero, alle botte, a mariti padroni dopo i padri padroni, a sfornare figli. E che si srotola nel tempo traducendo a ogni nuovo passaggio, nelle diverse fasi della vita delle sue protagoniste, anche quelle del nostro Paese. Un affresco, o un romanzo popolare, che sembra in qualche modo già scritto per la narrazione orale, ovvero cinematografica, al cui centro c’è questa amicizia, feroce e profonda, un sentimento universale coi suoi stridori e le sue ferite, le gioie rubate e la fatica in quel mondo di uomini che sembra non cambiare nella storia passata e presente.

IL PUBBLICO televisivo lo ha premiato con risultati ottimi – 7 milioni di ascolti col 29,3% di share – tanto che si parla già di nuove puntate dopo le prime otto previste. L’attesa era moltissima sin dall’annuncio della serie, rispetto a una lettura divenuta un vero e proprio rito collettivo – come di rado ormai accade – e l’operazione di lancio è stata anch’essa molto efficace, con l’anteprima alla Mostra del cinema di Venezia e un’uscita evento in sala di tre giorni. Ma è soprattutto il lavoro di Costanzo a esprimere un’ambizione diversa: il regista di La solitudine dei numeri primi punta a una cifra visiva di qualità alta, cerca referenze nel cinema del tempo in cui la storia si svolge, cura gli attori – perfette le due attrici che interpretano Lila e Lenù bimbe – Elisa Del Genio e Ludovica Nasti.

EPPURE – considerando la serie fuori dal contesto, come deve essere – manca qualcosa. Cosa? Per esempio un punto di vista, il punto di vista dell’autore, del regista, con cui cogliere la sfida e la scommessa della pagina scritta di un corpo a corpo per farla dimenticare, o rimpiangere chissà… Certo non è semplice rispetto alla quantità di linee narrative e emozionali che si intrecciano nei romanzi di Ferrante ma forse proprio per questo necessario. Mi viene in mente L’amore molesto, il film di Mario Martone sempre da Ferrante. Nella sua «lettura» Martone talvolta alla relazione dolorosissima tra madre e figlia prediligeva quella con la città, ancora Napoli, e col suo conflitto contemporaneo al film, e si poteva essere d’accordo o sentirsi «orfani» del proprio film ma c’era una presa di posizione personale con cui, appunto, confrontarsi. Costanzo invece sembra trattenere un po’ tutto, rimanendo in modo consensuale sulla soglia a cominciare dal rapporto – e dal sentimento che lo anima – tra le due ragazze. La sua presenza si palesa nella scelta di affidarsi alla forma (codificata) del cinema dell’epoca, come ha dichiarato, il neorealismo per gli anni ’50, le Nouvelle vague per i ’60, con tanto di citazione di Rossellini nella ragazzina che corre dietro alla camionetta dei carabinieri …

IN REALTÀ il rione napoletano dal cui orizzonte non si vede il mare – ed è per questo che Lenù e Lila scappano sognando di scoprire il riflesso del sole sull’azzurro quasi come una dichiarazione di ribellione alla loro condizione – somiglia più a un teatro, alla quinta di un Eduardo vagamente patinato – il bimbo con le arance, le donne con le sporte, gli uomini appoggiati al muro – nella cui perfezione si rischia di perdere la bellezza immediata di odori e di sapori, l’empatia con l’epoca di miseria e nobiltà, e quel movimento viscerale che è poi la biografia di una generazione, la nostra storia e la loro, l’essere a due modello e controparte, irrequietezza e lacerazione, conflitto, rivalità, amicizia e amore.

Le vediamo invece vivere in un paesaggio dove tutto torna – miseria compresa – ordinato dalla sceneggiatura (della stessa Ferrante insieme a Francesco Piccolo, Laura Paolucci, Saverio Costanzo), dalla voce narrante fuori campo (di Alba Rohrwacher) e da una distanza di sicurezza che mette al riparo da ogni rischio. Chissà se in seguito Lila e Lenù, malgrado tutto, riusciranno a portare quello scompiglio che è la forza magica dei loro personaggi.