Ahmad Abdelhaqi, responsabile dei servizi egiziani dei rapporti con i palestinesi, si è precipitato ieri a Gaza per colloqui urgenti con i leader di Hamas. Un’altra offensiva militare israeliana è alle porte e gli egiziani, almeno in apparenza, tentano di evitarla con la loro mediazione. L’obiettivo è portare il movimento islamico e il governo Netanyahu a quell’accordo di tregua a lungo termine di cui si parla ormai da mesi e del quale si sono perdute le tracce. Abdelhaliq è stato accolto da Tawfik Abu Naim, il capo delle forze di sicurezza di Hamas. Insieme prepareranno l’arrivo a Gaza, pare già domani, del capo dell’intelligence egiziana, Abbas Kamel, visita ad alto livello che conferma come Gaza sia giunta al bivio tra guerra e tregua permanente.

Le parole pronunciate ieri dal ministro della difesa israeliano, Avigdor Lieberman, non lasciano spazio ad interpretazioni. Ha detto che solo «un serio colpo» al movimento islamico potrà mettere fine alle proteste palestinesi – la “Marcia del Ritorno” contro il blocco israeliano di Gaza cominciata il 30 marzo a ridosso delle linee di demarcazione – e al lancio di palloncini incendiari verso il territorio israeliano. «La goccia che ha fatto traboccare il vaso», ha aggiunto sono state le manifestazioni di venerdì scorso, con circa 15mila palestinesi, che Israele pensava di aver scongiurato autorizzando il rifornimento della centrale elettrica di Gaza con carburante acquistato e donato dal Qatar. «Abbiamo esaurito tutte le altre opzioni a Gaza. Ora è il momento di prendere decisioni. Dobbiamo colpire seriamente, questo è l’unico modo per riportare la quiete», ha avvertito il ministro esortando i suoi colleghi di governo a sostenere la sua richiesta per una nuova offensiva militare contro Gaza, più ampia di quella del 2014.

Sull’altro versante la pazienza e la sopportazione sono finite da un pezzo. L’aggravarsi delle condizioni di vita per il blocco di Gaza si accompagna alla delusione mista a rabbia della popolazione per le notizie che un giorno danno per fatto l’accordo di tregua e il giorno dopo riferiscono del fallimento delle trattative indirette in corso tra Hamas e Israele. Le manifestazioni pacifiche dei primi mesi della Marcia del Ritorno sono diventate nelle ultime settimane relativamente più aggressive, con il lancio di ordigni artigianali e bottiglie incendiare contro le postazioni militari israeliane lungo le linee tra Gaza e Israele. Questo sviluppo è figlio anche della risposta durissima che Israele ha dato alle proteste impiegando centinaia di tiratori scelti che hanno fatto strage di manifestanti. Secondo i dati diffusi dal centro per i diritti umani B’Tselem, dal 30 marzo all’8 ottobre sono stati uccisi almeno 166 palestinesi (altre fonti danno un bilancio più alto) e tra questi ci sono 31 ragazzini. Senza dimenticare 5300 feriti da colpi d’arma da fuoco. B’Tselem sottolinea che gran parte degli uccisi erano civili che non avevano messo in pericolo in alcun modo i soldati israeliani. Sino ad oggi è stato ucciso solo un militare, da un colpo sparato da grande distanza da un cecchino palestinese.

Si attende venerdì, quando sono previste nuove manifestazioni palestinesi a ridosso delle linee con Israele, per capire se il governo israeliano darà seguito concreto alle parole di Lieberman dando il via libera all’offensiva militare. L’attacco contro Gaza peraltro diventa sempre più la bandiera che sventolano i ministri più estremisti, in vista anche delle elezioni politiche in Israele che più parti, anche per i dissidi interni alla maggioranza, prevedono anticipate rispetto alla scadenza della legislatura il prossimo anno.