Con il cuore ancora gonfio di emozione per quanto accaduto il giorno prima a Singapore, i sudcoreani sono andati alle urne, il 13 giugno, per le elezioni amministrative, che avrebbero determinato le sorti politiche di alcuni importanti distretti, città e regioni. Il risultato è stato netto e incontrovertibile, dato che il Partito Democratico di Moon Jae-in ha spazzato via i conservatori, trionfando in quasi tutto il paese a parte alcune roccaforti conservatrici come la provincia del Gyeongsang del Nord e la città di Daegu.In aggiunta, i democratici si sono assicurati 11 dei 12 scranni disponibili in parlamento grazie a elezioni suppletive, portando la propria rappresentanza a 130 unità, più i 25 parlamentari di altri gruppi di sinistra. Dato che l’opposizione può contare su soli 113 rappresentanti si comprende bene come, a meno di ribaltoni sempre in agguato nella sfera politica coreana, Moon non avrà alcun problema di numeri, che possono dargli la possibilità di produrre alcune riforme sostanziali, come per esempio l’abolizione dell’ormai anacronistico singolo mandato per il capo dello stato.
Di certo pochi avrebbero scommesso che i democratici avrebbero fatto il pieno di voti nell’intera regione del Gyeonggi, a guida conservatrice sin dal 1998, assicurandosi anche le città di Incheon e Seoul.
Nella capitale, Park Won-soon si è confermato sindaco per la terza volta consecutiva, conquistando addirittura 24 dei 25 distretti in cui è divisa politicamente la città.

Alla conclusione del suo mandato da sindaco, Park potrebbe legittimamente pensare di correre per la presidenza del paese nelle fila dei democratici. Se era lecito non aspettarsi sorprese nella regione sudoccidentale dell’Honam, da sempre caratterizzata da marcate simpatie progressiste e in cui i democratici hanno semplicemente annichilito i conservatori, ciò che è avvenuto nell’altra «metà» della Corea del Sud, e cioè nella regione dello Yeongnam, tradizionale roccaforte conservatrice, ha avuto dell’incredibile.

Questa vasta regione, infatti, ha dato i natali ai dittatori che hanno guidato il paese dai primi anni ’60 alla transizione democratica, avvenuta nel 1987, e da questi è stata costantemente favorita in termini di investimenti e dotazioni infrastrutturali: è ovvio, quindi, che qualunque risultato positivo sarebbe stato accolto come un enorme successo dai democratici. Dati gli esiti più che di un successo si può parlare di «miracolo politico», dato che il Partito Democratico non ha solo conquistato il controllo della regione del Gyeongsang del Sud – appannaggio della stella nascente dei progressisti, Kim Kyung-soo – ma anche tutte le città principali ad eccezione di Daegu.

È estremamente difficile prevedere se in futuro i conservatori avranno vita facile nel riconquistare il loro antico feudo. Sarebbe troppo semplice addebitare questa totale débâcle dei conservatori sostenendo che nulla di diverso poteva accadere considerato il recente passato. La ex-presidentessa Park Geun-hye è in carcere ormai da molti mesi, dove sta scontando una pena a 24 anni – comminata nell’aprile di quest’anno – per corruzione, abuso di potere e diffusione di segreti di stato.

Il suo predecessore, Lee Myung-bak, è stato arrestato alla fine di marzo, con l’accusa di corruzione ed evasione fiscale e, nel caso in cui fosse giudicato colpevole, rischierebbe persino l’ergastolo. Tali precedenti avrebbero imposto una profonda riflessione da parte del conservatorismo coreano, al fine di riguadagnare una qualche forma di fiducia e sostegno da parte degli elettori. Al contrario, gli ultimi 18 mesi sono stati testimoni di molteplici cambiamenti di casacca, divisioni interne e mancata assunzione di responsabilità: un chiaro indicatore della profonda confusione di cui è preda la fazione conservatrice è stata fornita dalla scelta di Hong Joon-pyo come leader, un uomo che non ha mai mostrato l’umiltà e la flessibilità richiesta dall’opinione pubblica. Ciononostante, l’impetuosa ondata progressista che si è abbattuta sulla Corea del Sud ha un nome preciso, quello dell’attuale presidente Moon Jae-in.

L’operato di Moon durante il suo primo anno in carica è stato estremamente positivo secondo i suoi concittadini, come testimoniato dal tasso di approvazione pari a circa il 70 per cento e dalla forte partecipazione alle elezioni amministrative, pari al 60.2 per cento, la più alta da 23 anni a questa parte.

Ciò è dipeso con molta probabilità dagli sforzi compiuti da Moon al fine di ricostruire un dialogo con Pyongyang, dall’invito alla Corea del Nord ai giochi olimpici invernali di Pyeongchang al duplice incontro con Kim Jong-un. Moon è stato abilissimo a giocare le sue carte e, soprattutto, a convincere l’opinione pubblica sudcoreana che la sua strategia di riavvicinamento alla Corea del Nord non avrebbe consentito a Pyongyang di continuare a prosperare dal punto di vista atomico alle spalle di Seoul.

Per questo motivo, Moon non solo non ha concesso ancora alcun aiuto finanziario ai nordcoreani, ma ha anche concertato ogni sua mossa con gli Usai, erigendosi come il vero fautore dell’incontro tra Kim e Trump del 12 giugno a Singapore. L’intenzione di procedere, come indicato durante il primo summit con Kim a Panmunjeom, verso la ratifica di un trattato di pace che sostituisca l’armistizio del 1953, l’ipotesi di riprendere i congiungimenti tra membri di famiglie spezzate dalla divisione e, in buona sostanza, aver in qualche modo contribuito all’allentamento della tensione sulla penisola hanno rappresentato fattori di non secondaria importanza nella espressione di voto dei sudcoreani.

Le sfide, tuttavia, non sono ancora terminate e il cammino di Moon è ancora lungo. A parte il “consolidamento” di questo rapporto positivo con Pyongyang e la necessità di provare alla comunità internazionale che la Corea del Nord sia realmente intenzionata di privarsi dell’arsenale atomico, Moon dovrà impegnarsi a fondo sul fronte economico: il tasso di disoccupazione giovanile è ai massimi storici e la confusione che attanaglia il mercato del lavoro è lontana dall’essere risolta. Oltretutto, il monopolio che i grandi conglomerati continuano a esercitare sul sistema economico del paese è soffocante e impedisce qualunque aumento dei salari.

Nel caso in cui Moon dovesse allontanarsi da queste questioni preferendo concentrarsi sulla questione intercoreana (senza citare il fatto che l’idillio tra Seoul e Pyongyang potrebbe interrompersi in qualunque momento, come già avvenuto in passato) rischierebbe di perdere il consenso popolare che ha conquistato, compromettendo, di conseguenza, anche la politica di apertura alla Corea del Nord. In occasione delle elezioni parlamentari, in calendario fra due anni, auguriamoci che Moon abbia compreso la lezione dei suoi predecessori.