C’è un che di involontariamente profetico nella decisione di Lidija Ginzburg di titolare il romanzo à la Proust che stava scrivendo negli anni Trenta La casa e il mondo. Animata dalla volontà di fissare «il divenire di un’autocoscienza sullo sfondo degli eventi storici», la giovane studiosa di letteratura, allieva di Boris Ejchenbaum e Jurij Tynjanov, non portò mai a compimento quel progetto forse troppo ambizioso – e, d’altronde, difficilmente all’epoca un testo così introspettivo sarebbe passato indenne al vaglio della censura.

Ciononostante, la contrapposizione tra dimensione privata e universale, tra intimità domestica e spazio urbano, sarebbe riaffiorata a distanza di anni delineando le coordinate di questa grande opera di Ginzburg, e cioè il «diario in forma di romanzo» ora tradotto da Francesca Gori con il titolo Leningrado Memorie di un assedio nella nuova collana «Narrare la memoria. Le storie dimenticate dell’Europa dell’Est» (Guerini e Associati, pp. 187, € 16,00).

Dimenticata, l’opera di Ginzburg lo fu sicuramente, considerando che solo a ottantadue anni, nel 1984, la scrittrice poté vedere pubblicata sulla rivista «Neva» la rielaborazione letteraria della sua esperienza di testimone oculare dell’assedio di Leningrado, durato 872 giorni e secondo nella storia moderna soltanto a quello di Sarajevo.

I limiti della finzione
Sulla definizione di memoir sussiste invece più di un dubbio, visto il tentativo dell’autrice di smentire con ogni mezzo possibile una identificazione troppo stringente tra il suo io e la voce narrante. Benché avesse assistito personalmente a gran parte dei fatti da lei riferiti, Ginzburg decide infatti di alienare i propri ricordi «cedendoli» a N., un personaggio anonimo, generico e convenzionale, caratterizzato esclusivamente dalla sua appartenenza a quella classe sociale che Stalin riteneva intrinsecamente «sospetta», cioè l’intelligencija.
Il risultato è un tessuto verbale scarno, volutamente spersonalizzato, che sembra recare impressa su di sé la brutalità degli eventi, ma che al contempo spicca per sobrietà tra le innumerevoli memorie o variazioni finzionali già pubblicate sull’argomento.

Inutile cercare in Ginzburg quei particolari strazianti e scabrosi (su tutto i casi di cannibalismo) che hanno dato forma all’immagine postmoderna dell’assedio, così come emerge per esempio da Europe Central di William T. Vollmann.
Memorie di un assedio comincia, non a caso, quando la città si è ormai lasciata alle spalle il terribile inverno del 1941-42 e i sopravvissuti si risvegliano pian piano, insieme alla natura urbana, dal torpore in cui la fame e il gelo li avevano sprofondati. Quanto è accaduto poco prima rimane confinato al di là della pagina scritta, ai limiti del dicibile, e a distanza di decenni Ginzburg si dirà stupita di aver trovato la forza di tenere un diario in quella primavera «strana» in cui i tram avevano appena ripreso a circolare, e le mani congelate, persa la capacità di afferrare le cose, potevano essere utilizzate tutt’al più come fossero «zampe, bastoni o moncherini».

Egoismi proficui
Tuttavia, le riflessioni che scaturiranno da questo inatteso ritorno alla vita convergono tutte verso una intuizione che già Tolstoj aveva espresso in Guerra e pace: gli esseri umani, lottando istintivamente e in modo egoistico per la loro sopravvivenza, contribuiscono senza neppure rendersene conto alla causa comune della società. In altri termini, la volontà individuale di autoconservazione «serve all’immenso sforzo del paese travolto dalla guerra», poiché si oppone inconsapevolmente alla strategia nemica finalizzata all’annichilimento.

Nulla di più distante dalla retorica eroica del sacrificio: il libro di Ginzburg non indulge minimamente all’epica patriottarda, analizzando piuttosto la situazione psicologico-fisiologica e le reazioni caratteriali di un uomo qualsiasi, piombato in quello stato di eccezione che si è determinato con l’assedio.

I critici si sono ovviamente interrogati sulla scelta dell’autrice di rielaborare il proprio vissuto personale – compresa la perdita della madre, morta di fame accanto a lei nell’appartamento che condividevano – reinventandosi nei panni di N. Se per Emily van Buskirk, curatrice insieme a Andrej Zorin dell’edizione canonica del testo, uscita a Mosca nel 2011, questa metamorfosi in panni virili è da attribuirsi alle inclinazioni lesbiche di Ginzburg, Boris Gasparov propende per una interpretazione più castigata: il cambio di genere e l’acquisizione di un io maschile, da intendersi sub specie impersonale, altro non sarebbero se non il logico risultato del tentativo di universalizzare la propria esperienza autobiografica.

Se si interroga da vicino il testo, le donne leningradesi sembrano incarnare un principio tenacemente vitale, quasi immemore della cesura esistenziale che intercorre tra il prima e il dopo l’assedio. Trascorrere ore e ore in coda per ricevere una razione da fame che nondimeno rappresenta l’unica speranza di sopravvivere non è una novità per loro.
Del tutto diversa, la posizione dell’intellettuale N., riformato per miopia e impreparato a fronteggiare una situazione che, d’altronde, non si potrebbe definire altrimenti che estrema. Inetto e abbandonato al pari del protagonista dostoevskiano di Memorie di una casa di morti, N. si misura con uno spazio urbano chiuso, e una città che, pur rimanendo la stessa, si è trasformata inaspettatamente in una prigione.

Estremi di un’ossessione

Descrivendo i suoi sforzi quotidiani per trascinarsi fuori dal guscio di una casa che può solo significare morte, indagando l’istinto che lo porta a «sostituire una sofferenza con un’altra», sopportando la fatica inaudita di attendere in fila una scodella di zuppa che non potrà mai saziare la sua fame, Ginzburg eterna il circolo vizioso degli assediati. La casa e il mondo, le pareti domestiche e la città diventano qui i poli opposti di un moto oscillatorio, gli estremi di una ossessione claustrofobica in cui è impossibile introdurre un gesto nuovo, se non quello liberatorio della scrittura.