In casa di Lidia Menapace a Bolzano un posto d’onore spettava al ritratto di Rosa Luxemburg. Lidia ammirava molto la rivoluzionaria polacca uccisa e buttata nello Sprea. La sua idea di rivoluzione, la sua fiducia nelle masse, la convinzione del ruolo comunque limitato del partito, la sua avventura di donna nel mondo della politica maschile gliela rendevano vicina. Anche Lidia, come Rosa, usciva dagli schemi in cui sono in genere rinchiusi gli uomini di partito e le donne che agli uomini vogliono somigliare. Pacifista, femminista, ecologista, era lontana – più di chiunque altro – dai giochi di potere, dalle lusinghe delle apparizioni mediatiche, dalle conquiste realizzate una volta per tutti, dal narcisismo dilagante nell’establishment politico e culturale. Ma quel che davvero la univa a Rosa Luxemburg era un dato caratteriale di fondo.

Una condizione dell’animo. Rosa nei suoi scritti si definiva «una cinciallegra», la rivoluzionaria polacca pensava a se stessa come a un uccellino vivace e colorato che cantava anche d’inverno e che saltellava tra boschi e frutteti, facendo sentire dappertutto il suo allegro canto. E, infatti, nelle sua breve vita in cui aveva scritto testi che avrebbero fatto la storia ed era entrata in competizione con i grandi uomini della rivoluzione, era rimasta allegra, di buonumore, alla perenne ricerca della felicità anche nei momenti più bui. Anche Lidia era una cinciallegra. Aveva fatto la partigiana, era stata una dirigente democristiana e poi dei movimenti cattolici, aveva avuto ruoli universitari e amministrativi importanti, una carriera politica e accademica di tutto rispetto. Anche lei aveva subìto incomprensioni e sconfitte politiche e aveva sopportato diffidenze e delusioni.

Ma, come Rosa, era una donna testarda e curiosa, sempre in movimento, colta senza essere erudita, che amava la politica senza offuscare i dati di realtà, che praticava la tanta osannata «fiducia nelle masse» frequentando, parlando, discutendo, litigando con chiunque lo volesse. Senza gerarchie, senza schemi, senza pregiudizi. Anche lei era allegra e gioiosa e amava la vita. E le piacevano le sfide. Lidia aveva incontrato il sessantotto quando era già un’importante dirigente politica e, senza esitazioni, si era buttata alle spalle le precedenti esperienze per aderire a un mondo sconosciuto e promettente. Un salto. Poi quando all’inizio degli anni 70 lo stesso movimento studentesco fu sconvolto dalla nascita del femminismo lei, dopo un iniziale turbamento, rivide molte delle sue convinzioni personali ed entrò con entusiasmo in un altro universo sconosciuto. Un altro salto.

Poi l’ecologismo e il pacifismo. Con convinzione militante. La vecchia partigiana, l’ex democristiana, l’unica dirigente cattolica del marxista gruppo del Manifesto aderì alle nuove esperienze con radicalità ed energia. Dando il suo contributo alla scrittura dei documenti, partecipando con passione alle riunioni di partito, senza rinunciare a un occhio critico ai burocratismi e i narcisismi che allignavano anche nelle più aperte organizzazioni della sinistra radicale. Lidia Menapace non ha scritto in volumi di politica e di teoria, quel che pensava, i risultati della sua incessante ricerca erano immediatamente riversati sugli altri. Articoli, volantini, documenti. Presenza. Era a suo agio quando parlava, partecipava, aiutava, quando contribuiva alla elaborazione di progetti, quando proponeva nuove visioni culturali, quando incontrava gruppi fino allora sconosciuti. Era una dirigente, ma si comportava come una giovane militante di base. Cuccette di seconda classe per viaggiare di notte e risparmiare tempo e denaro, notti a casa di compagni, cene arrangiate e allegre. In queste situazioni era a suo agio. Era felice e non lo nascondeva.

Mi sono spesso chiesta che cosa fosse rimasto nella lunga militanza a sinistra della sua formazione cattolica, della sua fede. Solo quando mi è arrivata la notizia della sua morte e ho rivisto le foto degli ultimi anni della sua vita, gli occhi arguti, il viso spiritoso e sorridente ho capito. In Lidia era rimasta sempre ferma la capacità di donare e di donarsi. La tensione al bene superiore, la capacità di non farsi irretire – anche comprendendole bene – dalle bassezze e dalle competizioni, dalla rivalità, dai settarismi che hanno contraddistinto la vita della sinistra. Ha comunque continuato a dispensare doni di valore, insegnamenti che sono rimasti punti fermi per molti. La radicalità. «Fuori la guerra dalla storia» è uno slogan coniato da lei. La coerenza. In nome della lotta alla guerra, quando divenne senatrice perse il posto alla commissione difesa perché criticò la parata militare e la sua esibizione di mezzi bellici. La forza. Un regalo soprattutto al movimento delle donne che, grazie a lei, comprese di essere come un fiume carsico, che può anche sprofondare, ma poi riappare in luoghi imprevisti e sconosciuti e può cambiare il paesaggio. Ma il suo regalo più bello è stato quello di se stessa. Della sua vita passata con gli altri e per gli altri. Senza retorica ma con la consapevolezza che è la sola vita degna di essere vissuta.

L’articolo è stato pubblicato sul numero 1 della rivista “Rocca” dell’1 gennaio 2021