Era sempre un passo avanti, Lidia Curti, e ci spiazzava con la sua apertura verso il nuovo e il futuro. Non a caso aveva coordinato una ricerca sui Femminismi futuri (Iacobelli editore, 2019) che ha coinvolto intellettuali femministe collegate con l’Orientale di Napoli, dove è stata docente di Anglistica per più di quarant’anni. Ancora pochi giorni fa, in un dialogo a più voci sui recenti confronti/scontri tra vecchi e nuovi femminismi promosso dalla rivista Leggendaria, aveva dichiarato: «Ho sempre vissuto ogni nuova ondata come un’aggiunta preziosa».

LIDIA CURTI ha costantemente lavorato per aprire spazi di innovazione e di dialogo al di sopra di barriere disciplinari e protocolli accademici, portando nell’insegnamento una passione civile che ha fatto di lei una figura carismatica per molte generazioni di studenti e di studiosi. Militante nel Pci e attiva nella sezione di Bagnoli, fu un tramite importante di quell’intreccio di passione politica e accademica che visse una stagione di fervore e profonda riflessione nel 1968-69, alimentata anche dall’interazione tra gli studenti e gli operai metalmeccanici, in focose assemblee e appassionati controcorsi.

GIÀ QUALCHE ANNO PRIMA, nel 1964-65 aveva contribuito alla nascita dell’area interdisciplinare degli Studi Culturali collaborando con il Centre for Contemporary Cultural Studies, che era stato appena fondato da Richard Hoggart e Stuart Hall all’Università di Birmingham allo scopo di promuovere un tipo di ricerca in cui confluivano studi letterari, antropologici, sociologici e politici, all’insegna di un serissimo impegno sul piano teorico e civile. Fu Lidia Curti a introdurre presso quel Centro gli scritti di Gramsci, ancora poco noti in Gran Bretagna, e a dare un apporto significativo a una rilettura duttile e resiliente del pensiero gramsciano che grazie a quella traduzione culturale, creativa e rispettosa insieme, iniziò il suo viaggio planetario, approdando alle declinazioni originali di congiuntura culturale e di egemonia che sarebbero state proposte dagli Studi Subalterni indiani.
Fin dagli esordi la sua didattica travalicò gli angusti confini «canonici», accogliendo le espressioni e i linguaggi delle arti visive, del teatro, del cinema, dei media; azzerando il divario tra colto e popolare, tra Cultura e culture; dedicando interesse alla vita «postuma» dei testi, rintracciabile nelle riletture, negli adattamenti e tradimenti, nelle messe in scena, e transcodificazioni.

NE SONO TESTIMONIANZA Peter Brook e Shakespeare: alla ricerca di un’avanguardia nel teatro inglese (1984), la cura di Amleto e i suoi fantasmi (1994), di Shakespeare in India (2010); i suoi studi sulla narratività televisiva; l’attenzione alle manifestazioni più sperimentali delle arti visive, la vicinanza con artiste e artisti la cui creatività attinge agli ideali ecologici, all’opera di videoartisti e registi che coniugano una struggente bellezza con la durezza delle discriminazioni razziali e di genere, con le sofferenze inumane inflitte dai vecchi e nuovi colonialismi (illuminante un saggio su «Sognare in Afro», in Estetica. Studi e ricerche, 2015, 1).

ACCETTARE LA SFIDA della complessità significava porsi all’incrocio di ottiche e di metodologie, con il sostegno di una vasta competenza teorica nutrita di un’insistente interrogazione critica delle elaborazioni psicoanalitiche, femministe, postmoderne e postcoloniali; significava anche tendere l’orecchio e aguzzare la vista per cogliere l’emergere del subalterno e del più che subalterno, del soggetto imprevisto tratteggiato da Carla Lonzi; un soggetto silenziato e emarginato dalla potenza del capitale, della razza, del patriarcato; in un intreccio che richiedeva strumenti di analisi flessibili, capacità di accoglienza, senza presunzioni e prevaricazoni, un «mettersi accanto», come suggerito da Assia Djebar e Trinh T. Minh-ha. Si pone in quest’ambito il lungo lavoro che portò a un congresso seminale all’Orientale di Napoli e al conseguente volume, curato con Iain Chambers, La questione post-coloniale. Cieli comuni, orizzonti divisi (1996), che fu molto influente a livello internazionale sullo sviluppo della critica postcoloniale.

IN TUTTA LA SUA PRODUZIONE ha perseguito (presagendola e anticipandola) una pratica di cui oggi si parla come «intersezione»; un atteggiamento dello spirito prima ancora che della critica che ispira la sua attività nella Società italiana delle Letterate e i suoi molti studi su donne e scrittura: da Female Stories, Female Bodies. Narrative, Identity and Representation (1998); all’ampia ricerca interdisciplinare sfociata nel volume curato con Silvana Carotenuto, Anna De Meo e Sara Marinelli, La nuova Shahrazad. Donne e multiculturalismo (2004); a La voce dell’altra. Scritture ibride tra femminismo e postcoloniale (2006, edizione aggiornata nel 2018).
Ci ha insegnato molto. Ci mancherà moltissimo.