Il 28 ottobre del 312 la battaglia di Ponte Milvio decretò il trionfo di Costantino quale unico Cesare delle due partes dell’impero di Roma e inaugurò una delle fasi di più profonda mutazione politica e culturale dell’ecumene romana dai tempi di Augusto. Un aspetto meno noto di questo storico episodio riguarda una decisione che il nuovo imperatore prese nei giorni immediatamente successivi alla battaglia: lo smantellamento delle coorti pretorie, il reparto d’élite che per secoli aveva rappresentato l’apice dell’enorme macchina militare su cui poggiava l’imperium, e che fin dalla sua fondazione aveva giocato un ruolo cruciale nel direzionarne la politica. Da questo atto conclusivo prende le mosse il saggio di Marco Rocco I pretoriani Soldati e cospiratori nel cuore di Roma (Salerno Editrice «Piccoli saggi», pp. 200, euro 18,00). Il volume traccia un’agile e ben documentata storia del pretorio, illustrandone con metodo solido e dovizioso l’enorme peso politico, l’ambiguo rapporto con i diversi imperatori che si avvicendarono sul Palatino, ma anche gli aspetti organizzativi e amministrativi, fino alla dimensione più quotidiana della vita di caserma.
Nate in età repubblicana come reparto ‘di fiducia’ dell’imperator, quando il titolo designava ancora il comandante delle legioni impegnate al fronte, fin dall’avvento di Augusto le coorti pretorie rappresentarono uno dei tratti definenti il potere e l’ideologia imperiale. In quanto reparto di soldati scelti incaricati della difesa di Roma e della persona del princeps, detenevano un potere e un prestigio senza pari nell’esercito romano, che gli imperatori stessi, salvo rare eccezioni, non cessarono di alimentare con fiumi di denaro, allo scopo di assicurarsene il sostegno. Non appena assunse il titolo di Augusto, il fondatore dell’impero stabilì per la guardia pretoriana una paga doppia rispetto alle legioni ordinarie e la pose a bastione del nuovo potere autarchico.
Questo ruolo di difesa trovò monumentale realizzazione con il suo successore, Tiberio, che fece edificare i castra praetoria a poche centinaia di metri dalle mura di Roma: un atto inusitato, che simboleggiava pietra su pietra la militarizzazione della capitale e il tramonto della libertas repubblicana. Per quasi tre secoli il potere dei pretoriani crebbe in modo quasi costante e si tradusse, naturalmente, in un rapporto straordinariamente complesso con gli imperatori, che da un lato li impiegavano per faccende a metà tra la milizia privata e la polizia segreta, e dall’altro vivevano nel costante terrore che quel potere potesse rivoltarglisi contro. E così, in molti casi, avvenne. La morte di Caligola, ordita da membri della guardia pretoriana, e la successiva nomina di Claudio inaugurarono, come segnala Rocco, «quel ruolo di kingmaker per il quale spesso (essa) è ricordata». Ruolo che toccò apici ormai divenuti celeberrimi, come nel 69, l’anno in cui Galba, Otone, Vitellio e infine Vespasiano si contesero l’appoggio dei pretoriani e, con esso, l’impero. O ancora nel 193, quando, dopo aver assassinato Pertinace, le coorti letteralmente offrirono la carica di imperatore al miglior offerente, trovando sponda in Didio Giuliano, il quale a propria volta dimostrò, come molti prima di lui, di aver fatto promesse impossibili da mantenere e fu presto assassinato dietro istigazione di un nuovo pretendente, Settimio Severo.
Ma la storia dei pretoriani e dei loro comandanti, i leggendari prefetti del pretorio, non è fatta soltanto di carneficine e avidità. L’indagine di epigrafi, diplomi militari e resti archeologici consente di ricostruire almeno parzialmente la realtà dei castra, l’organizzazione del corpo e la sua evoluzione nel corso del tempo. I capitoli conclusivi del volume scavano a fondo in questa messe di dati, indagando gli aspetti più pratici della vita dei pretoriani: la loro dieta e l’addestramento di routine, le competenze tecniche delle figure specializzate (medici, ingegneri armaioli), le attività amministrative alle dipendenze degli ufficiali, fino agli incarichi di polizia e spionaggio. Materia di dettaglio il cui valore va ben al di là del gusto aneddotico o dell’erudizione antiquaria, e al contrario consente di delineare, a volte con notevole precisione, il retroterra culturale, sociale ed economico, talvolta addirittura religioso, degli uomini che per secoli simboleggiarono il potere militare dell’impero. È questo probabilmente l’aspetto più interessante dello studio, che non rinuncia ad allargare lo sguardo e a rintracciare nelle coorti pretorie il riflesso di inquietudini e tensioni che attraversarono la società imperiale nel suo complesso. Tensioni anzitutto geo-culturali: composto da soldati di provenienza italica, il pretorio fu a lungo simbolo del centro geografico e ideologico che gravitava attorno a Roma, in contrasto con le altre legioni sempre più dominate dall’elemento provinciale; una dialettica delicata, destinata a mutare di pari passo ai complessi equilibri tra le varie compagini dell’impero.
L’immissione nel pretorio di soldati provinciali decisa da Settimio Severo significò l’ingresso di nuove componenti culturali nel cuore ideologico dell’impero e contribuì, tra le altre cose, a cementare il sincretismo religioso che caratterizzò questa fase storica, con l’assimilazione di divinità celtiche e orientali nel sistema cultuale dei castra. Ma ancora più notevoli furono le conseguenze sul piano socio-politico. Il crescente peso dei provinciali significò il definitivo emergere di una forza alternativa tanto all’imperatore quanto all’antica élite italica rappresentata dal Senato, ormai priva di potere ma ancora forte di un indubbio prestigio. Insomma, benché articolato in un ordinamento politico in cui violenza e dispotismo erano consustanziali al potere, il ruolo sempre più preponderante dei pretoriani «costituì una progressiva forma di apertura nella ‘partecipazione’ all’esperienza politica», specchio della complessa e variegata società tardo-imperiale.