Il progetto di Niccolò Contessa, I Cani, è nato sotto coperta, infatti i primi due pezzi uscirono su SoundCloud e YouTube, solo accompagnati da fotografie di cagnolini. Lo stesso Contessa si faceva intervistare con una busta di carta in testa. Ma stiamo parlando di 6 anni fa. Oggi esce il terzo album, Aurora (42 Records), e il suo frontman ha una faccia e un pubblico da sold out. Strano percorso il suo, con le fondamenta nell’elettropop d’autore, spigoloso nei testi, in questo album cambia registro, c’è un pop più melodico e accattivante, e soprattutto scompare Roma in cambio di galassie e cielo. Un etereo sentimento che ci fa sentire piccoli, e ci trasporta attraverso emozioni esistenziali e meno per le dinamiche generazionali.

Eppure nei suoi primi lavori ha descritto un certo tipo di Roma come quella dei pariolini. Era sembrata una novità, con una buona dose di coraggio e onestà: «Per me la questione è quanto un certo tipo di linguaggio e di mondo ha ancora da raccontare, e quanto invece è stato spremuto a fondo, diventando una serie di luoghi comuni. Se io oggi, come De Andrè, parlassi di prostitute e assassini, non avrei quella potenza espressiva, e non tanto perché sono cose che non ho vissuto in prima persona, ma perché quei temi lì non parlano più del mondo che viviamo. Quindi nel 2011 ho raccontato di pariolini e serate hipster perché mi sembrava ci fosse qualcosa di vitale, con un potenziale comunicativo».In Aurora il cantato è fragile (in senso buono), più intimistico, almeno a confronto del secondo disco Glamour, con i synth meno invasivi e più poetico: «Penso che sia cambiato il tipo di suono e di atmosfere che mi emozionano. Sicuramente non trovo più stimolante come prima, che ne so, un groove di batteria a 220 bpm, o un arpeggiatore distorto».

Alcune canzoni, come Una cosa stupida e Calabi Yau, pure senza strumenti acustici, si avvicinano più al cantautorato vero e proprio che al duro elettropop a cui ci aveva abituato, quasi una ricerca alternativa all’elettronica: «Penso che per un musicista non ci sia nulla di più sbagliato che inseguire un linguaggio o delle sonorità che non gli appartengono, nel tentativo di «allargare» il proprio pubblico. Ho sempre cercato di fare musica che piacesse in primo luogo a me, anche a costo di sbagliare, e senza cercare di indovinare i gusti del «grande pubblico».

29viddxI Cani - AURORA

In Baby soldato o Protobodhisattva, invece, riaffiora il realismo e la disillusione. Spesso si sofferma sulla competizione e sull’individualismo generale: «Vedo un’ideologia dominante che è l’ideologia dell’individuo: l’individuo che ’ce la fa’, e celebra il proprio avercela fatta condividendo il sogno che tutti ce la possono fare. È l’ideologia dei talent, delle start-up e della comunicazione sui social network. Non mi piace e non mi ci riconosco». In tanti, Contessa incluso, si sono prodigati per raccontare Pezzali (prodotto da Cecchetto) come punto di riferimento dell’indie.

Il risultato è stato che ora ce lo ritroviamo dappertutto… «Mi sembra un po’ fuori luogo definirlo un punto di riferimento dell’indie: è un artista a cui mi sento emotivamente molto legato, ascolto le sue canzoni fin da quando sono bambino e anche ora le considero belle canzoni. Mi infastidiva che nei suoi confronti ci fosse stato un ’riflesso condizionato’ negativo da parte della critica: anche tu nel parlare di lui, come a voler giustificare il tuo giudizio tranchant, citi Cecchetto, come fosse il male assoluto, ma ancora oggi fatico a vederlo come una presenza nefasta. È la solita storia, che evidentemente fa parte del DNA nazionale: quella di Lucio Battisti che, non essendo comunista, era disimpegnato e quindi di musica ’bassa’ o addirittura fascista».

Può essere, come allo stesso tempo, in una sua intervista su Vice, lo facevano passare per una specie di padrino degli hipster italiani, cosa che non gli fece molto piacere… «Purtroppo ho capito che si tratta di un meccanismo comunicativo inevitabile. Se sei tra i primi a parlare di una certa cosa, a trattare certi argomenti, esiste questa tendenza a farti passare in una certa ’squadra’, come se tutto si dovesse trasformare in logiche identitarie e di appartenenza. Insomma: parli di hipster quindi sei hipster, anzi sei il capo degli hipster. Che ti devo dire? Me ne farò una ragione».