Okwui Enwezor, direttore della 56/ma Biennale di Venezia, parla di filtri, costellazioni, apparenza delle cose, durata epica, disordine e inquietudine, nell’innescare con All the World’s Futures una serie di riflessioni sulla crisi del nostro tempo. In uno scenario del genere, ci stimola a ragionare anche sul ruolo della fotografia, non solo strumento di conoscenza ma di assunzione di responsabilità. Il primo esempio è Walker Evans, insuperabile interprete della fotografia documentaria, a cui il direttore rende omaggio con l’esposizione delle foto dell’edizione originale di Let Us Now Praise Famous Men (1941), scritto da James Agee e illustrato da Evans. In queste immagini scattate nel ’36 in Alabama, dove si raccontano le condizioni di vita di alcune famiglie di mezzadri, il rigore compositivo corrisponde alla loro determinazione nel rendere visibile sofferenza e disagio, tanto che il governo statunitense non poté chiudere gli occhi di fronte alla loro forza che lo costrinsero ad adottare specifici provvedimenti sociali ed economici.

famousmen-articlelarge

Sul filone di una fotografia distante dalla mera ricerca estetica, ma che coniuga il suo ruolo di testimone del presente con il dialogo con le altre arti visive, si delineano alcune tappe significative all’interno di questa Biennale, partendo da Arena – spazio nel Padiglione Centrale dei Giardini – dedicato a una programmazione interdisciplinare incentrata sulla lettura de Il Capitale di Karl Marx. Tra i numerosi appuntamenti, affidata a Joana Hadjithomas e Khalil Joreige (Beirut 1969), la performance quotidiana del loro libro d’artista Latent Images: Diary of a Photographer (2009), terza parte del progetto Wonder Beirut, che contiene una parte testuale e 38 stampe a contatto selezionate tra le centinaia di foto scattate, e mai sviluppate, dal libanese Abdallah Farah tra il 1997 e il 2006.

Detenuti e rifugiati
È significativo che Enwezor nel costruire la sua visione di un futuro che non può prescindere dal passato citi anche la presa di posizione della Biennale di Venezia contro il sanguinoso colpo di stato di Pinochet dell’11 settembre 1973: pur posticipando l’apertura, la kermesse veneziana realizzò e promosse numerose manifestazioni artistiche sotto il titolo «Libertà per il Cile», per denunciare il fascismo e manifestare solidarietà con il popolo cileno. Ricordare questo momento storico rimanda all’esperienza di Paz Errázuriz (Santiago del Cile 1944), importante fotografa cilena che, con Lotty Rosenfeld, rappresenta il paese sudamericano con il progetto Poetics of dissent, curato da Nelly Richard. I suoi ritratti in bianco e nero analizzano situazioni e personaggi ai margini della società cilena, spesso definiti surreali. Di Errázuriz,  viene esposta per la prima volta nella sua totalità la serie El Infarto del Alma, un lavoro graffiante sui detenuti psichiatrici.
Attento fin dagli anni ’80 alle evoluzioni del linguaggio fotografico il padiglione tedesco, curato da Florian Ebner, affronta ora i temi di migrazione, identità, lavoro e rivolta attraverso l’interpretazione di un gruppo di artisti che include il fotografo e filmmaker Zielony (Wüppertal 1973), conosciuto per il suo approccio critico verso la documentazione sociale: in questa occasione, affronta – su un doppio binario- il racconto del presente dei rifugiati africani a Berlino e Amburgo in relazione a quanto avviene nei loro rispettivi paesi d’origine. Tematiche che appartengono anche alla ricerca di molti fotografi africani, tra cui Mikhael Subotzky (Cape Town 1981), presente nella collettiva All the World’s Futures e George Osodi (Lagos 1974), tra gli artisti del padiglione della Nigeria, curato da Chika Okeke-Agulu.

Nel grande calderone di The Great Game, padiglione dell’Iran curato da Mazdak Faiznia e Marco Meneguzzo, ci sono anche artisti provenienti da altri paesi asiatici nonché parecchi fotografi. Tra loro, si distingue Newsha Tavakolian (Teheran 1981), che usa la fotografia come strumento critico di appartenenza sociale e anche conoscenza personale e, analogamente Shadi Ghadirian (Teheran 1974), che mette in scena i paradossi di una quotidianità in cui essere donna richiede grandi strategie di sopravvivenza. Invisible Beauty, curato da Philippe Van Cauteren, è il titolo del padiglione con cui l’Iraq torna in Laguna: tracce di bellezza celata sono concentrate nell’impegno di un gruppo di artisti iracheni che combattono per la libertà d’espressione in un paese messo a dura prova dalla guerra con l’Iran, dalla dittatura di Saddam e dalla difficile fase di democratizzazione destabilizzata dall’interferenza dell’Isis. In questo panorama si colloca il lavoro di Latif Al Ani (Karbala 1932), che ha documentato il paese tra la fine degli anni ’50 e i ’70, accanto alle immagini di Akam Shex Hadi (1985) che procede con una chiave di lettura più simbolica.

Wu Tien-Chang, Blind Men Groping Down the Lane

La perdita risarcita
Sempre modulato dall’uso di un bianco e nero fortemente contrastato, Antonio Biasiucci (Dragoni, Caserta 1961) esplora gli estremi vita/morte e origine/catastrofe, dando vita al grande polittico Corpo unico nel Padiglione Italia, curato da Vincenzo Trione. «Sono immagini che si relazionano tra loro per vicinanze e dissonanze – spiega il fotografo – creando una sorta di atlante delle vicende umane con l’intento di sottolineare l’impossibilità di chiudere in una forma definitiva la storia dell’uomo».
Memoria e identità sono anche il tema del padiglione della Repubblica di Armenia, curato da Adelina Cüberyan von Fürstenberg, che ha per titolo di Armenity: nel centenario del genocidio questa mostra mira a sottolineare la forza e la tenacia del popolo armeno nel mantenere viva la propria cultura, superando il dramma di massacri e deportazioni. Tra i 18 artisti della diaspora ci sono anche lo statunitense Aram Jibilian che, nel racconto che costruisce intorno alla figura del pittore Arshile Gorky (1904-1948) e della sua identità reinventata, associa fotografia e azione performativa per ridefinire psicologicamente il concetto di perdita. Il tema della maschera, in particolare, segna un ulteriore collegamento con l’interprete dell’Espressionismo Astratto: lo stesso Jibilian (memore forse della fotografia visionaria di Ralph Eugene Meatyard), i suoi familiari e gli amici indossano, infatti, maschere con i volti tratti dalla serie di Gorky The Artist and His Mother. Celata anche l’«armenità» ritrovata in Unexposed (2012), il lavoro in cui Hrair Sarkissian (Damasco 1973) punta l’attenzione sui discendenti degli armeni che si convertirono all’Islam per scampare al genocidio del 1915 e che oggi, avendo riscoperto le loro radici si sono riconvertiti al Cristianesimo, ma risultano invisibili sia per la società turca che per quella armena. Cambiare identità è un tema che appartiene anche al taiwanese Wu Tien-Chang (Changhua 1956) che, in occasione di Never say Goodbye – evento collaterale della Biennale – svela le contraddizioni del mezzo fotografico. La fotografia digitale, in particolare, è lo strumento più adatto per manipolare le immagini e descrivere una realtà che, al di là dell’apparenza, è quasi sempre falsa. Questa certezza, per l’artista, nasce da considerazioni di natura politica legate al suo paese, dove fino al 1987 vigevano censura e legge marziale.

Ma dietro quei suoi personaggi dal sorriso stampato ci sono anche le suggestioni dell’infanzia: i genitori di Tien-Chang lavoravano in un cinema, dove il padre dipingeva manifesti e la madre vendeva biglietti.