Dopo il pasticcio internazionale di The Tourist, Florian Henckel von Donnersmarck torna nella Germania post bellica dove ambienta un ritratto d’artista da giovane con segreto inconfessabile che vorrebbe rinnovare i successi, invero eccessivi, dell’esordio di Le vite degli altri. Con una narrazione che si sviluppa nell’arco di oltre trent’anni – dal nazismo alla caduta del muro – il film si misura con l’identità tedesca utilizzando il privilegiato punto di vista di un artista. È lo stesso obiettivo di Heimat 2, il capolavoro di Edgar Reitz, che però si rivela decisamente proibitivo per Henckel.

L’antefatto si colloca negli anni trenta, quando una giovane donna moderatamente ribelle e un po’ eccentrica (ama suonare nuda il pianoforte, turbando per sempre le notti del nipote protagonista) viene internata ed eliminata secondo procedure (camera a gas e crematorio) che sarebbero state inaugurate solo nel 1942 ad Auschwitz. La sciatteria della ricostruzione storica continua anche negli anni postbellici, quando le esemplificazioni ideologiche si sposano con soluzioni di regia che toccano l’apice della bruttezza con l’accostamento di due scene di sesso – la prima dolce e romantica la seconda meccanica e violenta – che vorrebbe definire personaggi, sentimenti e rapporti di classe e si risolve in una carrellata che non si può neppure definire abietta.

Siamo negli anni cinquanta, quando Kurt Barnert, il ragazzino dell’inizio, si segnala come uno dei più brillanti allievi dell’accademia di belle arti di Dresda. Insofferente ai dogmi del realismo socialista, troverà la sua via scappando a Ovest e trovando un mentore in Joseph Beuys, allora insegnante alla Kunstakademie di Düsseldorf, ma non prima di innamorarsi ricambiato della bella della scuola. La quale, per chiudere il cerchio, è la figlia di Carl Seeband (Sebastian Koch) criminale nazista imboscato grazie ai favori di un colonnello sovietico. È a Düsseldorf che si chiarisce il senso del titolo: Werk Ohne Autor (Opera senza autore) è la definizione che un ottuso giornalista televisivo dà ai foto-dipinti di Kurt, che è costruito sulla figura di Gerhart Richter.

Ovviamente la definizione va letta in chiave antifrastica – il film fa di tutto per mostrare come solo la sofferenza trasformi Kurt in un vero autore – e assunta come una sorta di spia delle smisurate ambizioni teoriche di Florian Henckel che, nel romanzare una storia vera, si riflette in Richter e nel suo gioco di sovrapporre strati di colore e registri espressivi per invertire le parti tra il realismo fotochimico della fotografia e l’impressionismo delle pennellate.
Un film impari e goffo, finito non si sa come in concorso.