Luciano Morandini è una figura assai interessante del secondo Novecento. Formatosi sull’opera del personalismo cattolico di Emmanuel Mounier, aderisce in seguito al socialismo. I suoi esordi poetici (Terra d’amore, Fino all’arco dei monti, Monrupino) e intellettuali avvengono nella temperie del neorealismo. Infaticabile la sua attività culturale, dai programmi per la Rai del Friuli Venezia Giulia e per Radio Koper-Capodistria, a direttore delle riviste friulane «Zeta» e «Diverse Lingue». Sue opere sono state tradotte in sloveno, serbo-croato, tedesco, inglese e spagnolo.

Questo volume – L’onestà del poeta, a cura di Giuseppe Marini, Forum, pp. 227 – ha un titolo preso in prestito da Umberto Saba e raccoglie una scelta di scritti per la rivista «Il Nuovo Friuli», dal 2001 all’anno della morte. Certo in coerenza con la testata, emerge assai chiara l’organicità profonda dell’autore alla terra natale, come già era accaduto, per restare entro le coordinate geografiche, a molti suoi maggiori o coetanei, da Saba, a Biagio Marin, a Amedeo Giacomini fino alla matria solighese di Andrea Zanzotto, per altro mai nominato in queste pagine. Del resto, come ha insegnato a suo tempo Carlo Dionisotti, è l’intera letteratura italiana – dunque la lingua, la cultura e la vita sociale – a portare impresso il segno della pluralità regionale.

L’inaugurale neorealismo di Morandini ne costituisce appunto una specifica coloritura generazionale e personale, con la carica libertaria e contestativa che, fino agli anni Sessanta, la rivendicazione delle particolarità locali e dal basso comportava. Ma gl’interventi ora raccolti sono tutti nati in piena rivoluzione passiva berlusconiana e nella travolgente globalizzazione neoliberista. Tra i tanti nomi che hanno ribaltato il loro significato, nel cuore del leghismo incontriamo naturalmente la spinta contro il centralismo, tanto più che anche la vicina pluralità eterodossa della Repubblica Jugoslava è tornata ad essere, come prima del «secolo breve», piaga sanguinante d’Europa. Così, il sarcasmo di Morandini si scaglia contro il «Padrone della Casa» che nell’edizione dell’Elogio della pazzia di Erasmo da Rotterdam, preso dalla furia imbonitrice, si fa a propria insaputa prefatore dell’autoritratto: «credete che mi ricordi ancora di quel che ho detto? (…) Dicevano gli antichi: odio il commensale che ha buona memoria. E i moderni: odio l’uditore che ha buona memoria (…) addio, dunque: applaudite, state sani, bevete». Per la medesima buona ragione Morandini prende le distanze dal leghismo: «mi chiedevo (…) se non sia artificiosa e retorica ogni pretesa che si richiami alla diversità friulana».

Gli scritti pongono dunque con energia l’accento su quelle linee d’apertura che il Friuli, terra di confine quanto forse poche altre, porta nel proprio seno: dall’area mitteleuropea, alle nuove regioni ex jugoslave, fino alle antiche migrazioni contadine verso il Nord e verso le Americhe. Tuttavia gli scritti si portano un nodo irrisolto, tra la rivendicazione di queste aperture e l’attaccamento all’identità’: «se la destra più rozza si schiera tutt’oggi acriticamente, fino alla xenofobia, sulla linea dell’etnocentrismo, per la sinistra l’identità è qualcosa di diverso, non è autoaffermazione che esclude, ma senso di un’appartenenza che si coniuga, democraticamente, con il rispetto di tutte le identità, nel nome dei diritti universali e della collaborazione fra le culture di varia appartenenza, locali o nazionali che siano».

La risposta al razzismo e all’accecamento corporativo consisterebbe insomma in una diversa disposizione morale: abbandonare l’esclusione per l’accoglimento. È altamente significativo dell’impotenza che attanaglia le nostre vite e offusca il domani il fatto che la fedeltà di Morandini all’originario socialismo umanitario – sua «onestà» e suo onore – approdi alle medesime posizioni dei nuovi movimenti mondiali: radicati sì nel loro specifico e magari radicali, ma incapaci di cogliere e praticare, o rivendicare ciò che unifica, solo invocando il processo per addizione.