Di lui la Texas Monthly ha scritto che «la frontiera ce l’ha dentro». E in effetti Benjamin Alire Sáenz, vincitore lo scorso anno del più importante premio letterario statunitense, il Pen/Faulkner Award, con la raccolta di racconti Tutto inizia e finisce al Kentucky Club (Sellerio, pp. 248, euro 16), prima che uno scrittore straordinario, poetico e visionario, sembra essere un uomo che non ha mai smesso di varcare confini.
Quarto di sette figli di una famiglia di chicanos, gli statunitensi di origine messicana, Sáenz è nato – nel 1954 – e cresciuto in una piccola fattoria di Las Cruces, nel Nuovo Messico, a 45 miglia a nord di El Paso, la città texana dove vive tuttora – che dista solo pochi chilometri dalla messicana Ciudad Juárez – e dove insegna scrittura creativa all’università, nel primo corso bilingue del genere dell’intero sistema scolastico americano. Prima di tornare lungo quella frontiera da cui non sa separarsi – «Ci ho provato – ammette – ma è più forte di me, torno sempre. Forse ogni scrittore ha un suo “posto” e questo è il mio, anche se è un posto la cui identità è difficile da definire» – ha vissuto molte cose. È stato sacerdote, missionario in Tanzania, quindi ha lasciato la Chiesa, ha studiato letteratura a Stanford, si è sposato, poi ha divorziato e nel 2009 ha dichiarato di essere omosessuale e si è impegnato nel movimento gay.
Ospite del recente festival Letterature di Roma, Benjamin Alire Sáenz ha proposto alcuni dei temi che fanno da sfondo alla sua intera opera e ai racconti di Tutto inizia e finisce al Kentucky Club: la malinconia e la solitudine, ma anche il fascino selvaggio e sensuale della frontiera, la ricerca dell’amore e la difficoltà di costruire legami in un mondo violento e individualista, la vita lungo un confine che separa mondi in realtà molto più simili di quanto si sarebbe pronti ad ammettere e il peso di un destino che, per molti, sembra essere costantemente in bilico tra disperazione e redenzione.

Negli ultimi anni Ciudad Juárez è diventata una delle città più violente del mondo, al punto che il giornalista Charles Bowden l’ha ribattezzata Murder City in un celebre libro-inchiesta. I suoi racconti ruotano invece attorno al Kentucky Club, il locale simbolo del passato della città. Spera che in futuro Juárez torni ad assomigliare ad un luogo di festa?

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In realtà ho scelto il Kentucky Club perché non è soltanto il simbolo dell’epoca d’oro di Juárez, ma un po’ dell’intera vita di confine. Un posto conosciutissimo ancora oggi sia da chi vive in Messico, che da chi sta dall’altra parte del Rio Grande, a El Paso, negli Stati Uniti. Si tratta sicuramente di una citazione nostalgica, che però, si, vuole esprimere anche ottimismo per il futuro. Il Kentucky Club è nato nel 1920, in pieno proibizionismo, e, all’epoca, accoglieva ogni giorno una folla di americani che varcavano il confine solo per farsi un goccio: si dice che sia qui che è stato inventato il Margarita. Il nome del locale deriva dal whisky: i proprietari producevano una versione domestica del cosiddetto Kentucky Bourbon. Non solo, l’Avenida Juárez, dove c’è ancora oggi questo locale, è stata a lungo il posto più glamour della città: un night-club dietro l’altro, luci fantastiche e musica che sbucava ovunque. La gente si metteva elegante per passeggiare lì su è giù o per passare la serata in un locale. Era una folla mista di messicani e statunitensi.
Il «Kentucky» ha fatto la storia del confine, ci sono passati tutti, da Marilyn Monroe ad Ernest Hemingway, da Frank Sinatra ad Elizabeth Taylor. E quando, negli ultimi dieci anni, Juárez si è trasformata nella capitale della violenza e del femminicidio, e i locali hanno cominciato a chiudere uno dopo l’altro, il Kentucky Club ha resistito. È sopravvissuto, e cerca ancora di farlo, come la città e i suoi abitanti che ancora non si sono arresi.

Questa è la storia del Kentucky Club, ma quanto le appartiene la memoria di Juárez, quale è stato il suo rapporto personale con la città?

Posso dire che non immagino neppure la mia infanzia o la mia adolescenza senza pensare a Juárez. Credo che per me abbia sempre rappresentato quella possibilità e quella libertà che il paese in cui sono nato, gli Stati Uniti, non poteva darmi. Del resto, la città messicana è ancora oggi più sviluppata e interessante di El Paso. Sono andato la prima volta a Juárez che ero molto piccolo, mio padre portava me e i miei fratelli da un barbiere messicano perché costava meno. Il barbiere stava a pochi metri dal ponte Santa Fe, su cui passa la frontiera, e all’inizio dell’Avenida Juárez. Da lì annusavo l’odore della città, mi sembrava un posto misterioso, pieno di vita, gente e musica: era come un Lunapark.
Arrivato all’età del liceo, andavo a Juárez con i miei amici, per bere e fumare, era l’epoca delle prime trasgressioni e allora mi appariva come la città del peccato. Però, all’epoca, era pieno di soldati americani mezzo ubriachi che andavano a far baldoria e a cercare compagnia femminile. Ricordo che mi dava molto fastidio il modo in cui si comportavano: avevano un modo aggressivo, camminavano con aria strafottente come se la città gli appartenesse. Mi vergognavo per quell’aria di superiorità che mostravano, non mi sentivo come loro, malgrado anch’io avessi un passaporto americano in tasca.

La maggior parte dei suoi personaggi vive a El Paso, però sembra dover attraversare la frontiera per ricongiungersi con una parte di sé rimasta in Messico. Quella frontiera divide in realtà in due la stessa anima?

Per molti versi si. Si tratta di uno degli aspetti più importanri dell’esperienza della frontiera e della psicologia che sviluppa chi vive qui. Molti di noi continuano a cercare qualcosa di sé che si è perso da qualche parte in Messico, come se i nostri antenati avessero lasciato là la traccia iniziale della nostra esistenza. Perciò quando siamo a Juárez, inconsapevolmente, cerchiamo di trovare questa parte di noi che si è persa per strada, a cui spesso non sappiamo nemmeno dare un nome, ma che sentiamo essere fondamentale, decisiva per comprendere davvero chi siamo. Perciò, i personaggi delle mie storie sono quasi sempre delle persone che cercano qualcosa che manca nella loro vita e che però non possono trovare negli Stati Uniti. Sono anche individui disobbedienti, che mal si adattano al clima di nazionalismo esasperato che si respira sia in Messico che negli Usa: loro, non appartengono fino in fondo né all’una né all’altra parte, sono, appunto, cittadini della frontiera, rifiutano di farsi arruolare e di obbedire ad una bandiera.

La violenza che si è scatenata negli ultimi anni a Juárez attraversa alcuni dei suoi racconti, senza esserne però il tema principale. Non sente il bisogno di raccontare ciò che sta succedendo in questa città che ama tanto?

Credo sia molto complicato scrivere della violenza senza scivolare nel sensazionalismo o nella morbosità. Nello spazio di quattro o cinque anni, a Juárez sono state uccise talmente tante persone che il pianto dei loro parenti potrebbe riempire il letto del Rio Grande. È proprio perché mi sento così vicino a questo dolore che cerco di essere molto attento quando parlo di persone uccise o scomparse. Non vuol dire che mi sono arreso alla situazione. Ho partecipato a molte marce e proteste organizzate dalla parte messicana del confine perché si ponesse un argine a tutte queste morti assurde. E ho sempre cercato di far capire, anche con quanto scrivo, che la violenza di Juárez non si ferma alla frontiera, ma riguarda anche noi che viviamo a El Paso, riguarda anche gli americani, malgrado la maggioranza delle vittime non lo siano.
Oltre frontiera c’è un pezzo importante dell’economia americana, legale o meno, e in posti come Juárez, i governi di Washington e di Città del Messico hanno intrappolato un mucchio di persone che ora lottano ogni giorno solo per sopravvivere. Ricordo ancora che quando da bambino attraversavo il ponte Santa Fe, mio padre mi dava sempre una monetina da tirare a quei ragazzini mezzi nudi che da sotto il ponte gridavano per avere qualcosa. Era terribile. Chissà che fine avranno fatto una volta cresciuti? Ecco, la violenza non nasce dal nulla e volerne parlare senza capirne l’origine non serve a niente.

Quando, lo scorso anno, lei ha vinto il Faulkner Award, molti giornali hanno sottolineato che era la prima volta che un chicano si aggiudicava il più prestigioso premio letterario americano. Gli ispanici sono oggi maggioranza in molte parti degli Usa, perché il suo caso stupisce ancora?

In realtà, i latinos sono sempre stati parte della cultura americana. Solo che finora non è mai stato riconosciuto questo contributo, per cui vincere un premio può suscitare ancora stupore. Il fatto è che gli Stati Uniti, da questo punto di vista, hanno sempre avuto un atteggiamento schizofrenico. Da un lato c’è tutta la retorica della difesa delle frontiere e del chiudere la porta all’immigrazione, che è soprattutto ispanica e proviene in maggioranza proprio dal Messico, dall’altro c’è il riconoscimento di quanto di latino c’è già nella vita del paese. Solo che questo riconoscimento, comunque importante, non riguarda mai qualcosa di profondo, si ferma sempre alla superficie, alla musica piuttosto che al cibo.
Negli Usa sono molto diffusi i ristoranti che propongono specialità messicane o latinoamericane – anche se spesso si tratta di catene di proprietà di gringos in cui gli ispanici fanno al massimo i cuochi o i lavapiatti. Una delle più note, El Cipote, ha voluto darsi un tocco di classe e ha stampato su tazze e piatti delle farsi di scrittori celebri: beh, nessuno di loro era ispanico. Per fortuna, la vita va più veloce degli uomini e in posti come il Texas nell’arco di pochi anni gli ispanici diventeranno la maggioranza, e lo stesso avverrà in gran parte degli Stati di frontiera. A quel punto, il cambiamento non riguarderà più soltanto le abitudini alimentari o le canzoni da programmare alla radio, ma anche le scelte di fondo della società e lo stesso potere politico. È un dato di fatto: i latinos rappresentano il futuro degli Stati Uniti.