Su queste pagine si è già dato conto della svendita di molti capolavori italiani, migrati all’estero fin dal Settecento (lo spunto lo aveva dato il libro di Fabio Isman, L’Italia dell’arte venduta, edito dal Mulino). Ci sono però anche quelli – moltissimi – sottratti in modo illecito, razziati o rapiti. Che fine hanno fatto? Capolavori rubati, il volume di Luca Nannipieri (Skira, pp.173, euro 19), riprende il discorso, importantissimo, delle vicende di transizione delle opere d’arte, che ne segnano il destino. E imbastisce un ragionamento sull’identità artistica, su quanto non appartenga a una sfera separata dalla vita, ma sia una realtà quotidiana mai pacifica. L’opera vale nella sua singolarità, per i significati interni, ma è anche oggetto di una valenza, dei valori diversi – educativi e di identificazione culturale o economici, politici e di possesso – che incarna per soggetti diversi.

POCHI CAPOLAVORI hanno alle spalle una storia facile, anzi «il bello è l’inizio del tremendo» (Rilke). Perché nell’alterarne il corso, rubandoli, distruggendoli, sequestrandoli, si sminuisce o annulla la valenza altrui, che pure si riconosce, e si esalta la propria. Così lo spazio di territorio che gli ebrei chiamano «il monte del Tempio», che gli arabi chiamano «la spianata delle moschee» e i cristiani «città sacra» – vale a dire Gerusalemme – è una polveriera di interessi, memorie e visioni differenti. E un misto di avvilimento e indignazione ci coglie ancora al pensiero delle sculture devastate nel museo di Mosul. Iconodulia e iconoclastia sono contrasti simultanei.

Oggi il contrabbando di opere d’arte è il più proficuo dei commerci criminali, dopo droga, armi e tratta di esseri umani. Se non esistono luoghi franchi dove i furti non accadono, sciacallaggi e razzie – nota Nannipieri – si sono però spostati in Paesi del Medioriente con turbolenze governative: Siria, Egitto, Libia, Libano, Iraq. Lì la vendita dei reperti è lecita, la catalogazione museale assente e la furia iconoclasta spesso si trasforma in pezzi da rivendere lungo rotte meno controllate, fino a mercati europei, come Portobello a Londra, che finiscono per finanziare il terrorismo. Ma il furto è sempre stato la forma più consueta di appropriazione di un’opera, affermazione della supremazia di un popolo, di un gruppo, di un individuo.

LA SINDROME DI STENDHAL deve avere colpito Lord Elgin, che nel 1816 ha asportato dal Partenone settantacinque metri di bassorilievi e sculture, facendo segare la parte scolpita per agevolarne il viaggio verso Londra. Anche il Museo egizio di Torino e il Museo archeologico di Firenze sono nati da saccheggi e acquisizioni arbitrarie. Tra il 1794 e il 1816 Napoleone organizza il più grande spostamento di opere d’arte della storia, con l’intento enciclopedico di riunire in quel che sarà il Louvre la summa della produzione del mondo intero.

Un secolo dopo Hitler fa depredare luoghi laici e religiosi in Europa per allestire a Linz, sua città natia, il Führermuseum, e legittimare le fondamenta della «razza ariana». I Monuments Men hanno salvato dalle bombe molti capolavori trafugati dai nazisti, mentre altri, come il Ritratto di giovane uomo di Raffaello e la Testa di fauno di Michelangelo, restano dispersi. Dal 2015, nel torrione della Cascina Casale, vicino Milano, il Maio, museo dell’Arte in Ostaggio, riproduce le 1651 opere prigioniere di guerra. Chiude la lista dei megalomani dell’arte Jean Paul Getty, l’americano più ricco della seconda metà del Novecento, che con il Getty Museum si è aggiudicato quanto di meglio si potesse comprare allora. Questo cosiddetto «museo dei razziatori» annovera opere tolte clandestinamente anche da aree del nostro territorio.

L’Italia ha chiesto la restituzione di sessantasette rilevanti antichità e ottenuto nel 2011 la Venere di Morgantina, presa dai tombaroli ad Aidone negli anni Ottanta e che, però, rimpatriata, non gode certo di analoghe cure. Di qui la domanda dell’autore: è meglio riportare i reperti nei luoghi d’origine, spesso periferici, o lasciarli nei centri che li ospitano, dove sono più apprezzati e l’afflusso dei visitatori è continuo? La risposta è di buonsenso: l’opera sottratta, ovunque si trovi, sia di beneficio pubblico, non accontenti l’insolente privilegio di un collezionista di tenerla per sé. Così il Louvre è il museo più visitato al mondo – oltre 27mila persone al giorno – poiché si propone come l’emblema della memoria, «il libro in cui impariamo a leggere» (come sosteneva Cézanne). E le sue opere sono perciò trattate con le attenzioni dei monumenti simbolo.

NEL LIBRO ogni capitolo è dedicato a un caso ed evidenzia la fragilità dei sistemi di documentazione e sicurezza: dalla scomparsa, nel 1997, di Ritratto di signora (1916) di Klimt dalla Galleria Ricci Oddi di Piacenza, durante dei lavori di ristrutturazione (ritrovato poi rocambolescamente nel dicembre scorso in un sacco, dentro un’intercapedine, ndr), al trafugamento in stile hollywoodiano nel 2015, dal Museo civico di Castelvecchio a Verona, di 17 capolavori, fra cui dei Tintoretto, un Mantegna e un Rubens, poi recuperati; da L’Urlo di Munch vittima in Norvegia di innumerevoli furti nelle sue versioni, a van Gogh, che è il più rapinato dai ladri, merce di scambio nel narcotraffico internazionale; dall’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston, che lascia appese le cornici vuote dei 13 quadri rubati nel 1990, una rara collezione statunitense di arte olandese, al Museo Chácara do Céu di Rio de Janeiro, spogliato, nel 2006, di cinque opere fra cui l’unico Dalí dell’America latina; dalla richiesta di riscatto, nel 2003, di dieci milioni di euro per la Saliera di Benvenuto Cellini, rubata al Kunsthistorisches Museum di Vienna, alla preferenza, nel furto al castello di Drumlanrig in Scozia, di un dubbio quadro di Leonardo, la Madonna dei fusi, invece di uno splendido Rembrand, La vecchia leggente (1655). Il consenso planetario su Leonardo trascende la distinzione tra falsi e originali.

Una tesi eleva questo volume sui tanti di cronaca nera dell’arte: l’immagine dell’opera cambia quando quest’ultima scompare. Il furto nel 1969 della Natività di Caravaggio che, finché si trovava nell’Oratorio di San Lorenzo a Palermo, pochi avevano preso in considerazione, ha scatenato una serie di congetture – giudiziarie, giornalistiche, letterarie, cinematografiche – tali da renderla un mito, nonché il capolavoro oggi più ricercato. Per non parlare degli effetti che ha avuto sulla Gioconda la sua improvvisa sparizione nel 1911, fuori misura se si pensa alla facilità con cui l’imbianchino italiano la sottrasse dal Louvre. Monna Lisa era già un modello per molti artisti, ma non il mito che conosciamo oggi. I discorsi che seguirono, le traduzioni di Duchamp, Léger, Dalí, Warhol, Botero, Rauschenberg, Basquiat e Keith Haring, le riproduzioni sotto forma di gadget, la ricollocazione a devozionale distanza, dentro una teca blindata, hanno fatto entrare quest’opera nell’immaginario di tutti.

MA, DI CHI È «LA GIOCONDA»? La proprietà legale è della Francia, che la registra nelle collezioni reali dal Cinquecento, la proprietà paterna è di Leonardo, quella identitaria è contesa tra francesi e italiani, la simbolica varca i confini territoriali e temporali. Simbolizza quell’accudire la memoria che è il fondamento su cui si regge l’esistenza dei vivi.

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«Chi l’ha visto» sulle tracce di Klimt

Il Ritratto di signora di Gustav Klimt (realizzato tra il 1916 e il 1917 dal pittore viennese), fu rubato nel 1997 dalla Galleria Ricci Oddi di Piacenza che lo custodiva. Dopo 22 anni di vane ricerche (anche la trasmissione Chi l’ha visto si interessò al caso), il dipinto è stato ritrovato in maniera sorprendente lo scorso dicembre dal personale alle prese con interventi di manutenzione straordinaria in quella stessa pinacoteca. Durante i lavori di ripulitura di una folta pianta d’edera, su una parete esterna della galleria, è spuntata una botola, chiusa da uno sportello: dentro, c’era un sacco e nel sacco, il quadro sparito. Non aveva fatto molta strada quel capolavoro ricercatissimo dalla polizia di tutto il mondo: forse l’intercapedine era un nascondiglio temporaneo, ma per qualche oscuro motivo era diventato permanente. Di «Ritratti di signora» firmati da Klimt ne erano apparsi altri in Italia su segnalazione: erano tutti dei falsi. L’autentico stava al suo posto, in ombra.