Poetico, lirico ed evocativo come l’Akomfrah delle migliori occasioni (dall’indimenticabile esordio con Handsworth Songs nel 1987 al più recente e raffinato The Nine Muses, 2010), il regista afro-britannico, co-fondatore dello storico Black Audio Film Collective (BAFC 1982), torna alla ribalta della scena artistica londinese con The Unfinished Conversation, che, dopo l’apprezzato debutto alla Biennale di Liverpool lo scorso anno, viene ora proiettato a ciclo continuo alla Tate Britain (fino al 23 marzo) sulle sponde del Tamigi, rendendosi così accessibile ad un più vasto ed eterogeneo pubblico.

L’opera si presenta come un’installazione video a tre schermi che nella durata complessiva di 45 minuti rende omaggio al sociologo e teorico culturale britannico di origine caraibica Stuart Hall, ricostruendone in maniera ammirata e talora celebrativa, ma scevra da nostalgici sentimentalismi come è proprio dello stile di Akomfrah, l’identità intellettuale, etnica e personale nell’arco di sessant’anni di storia individuale e collettiva. Nato a Kingston, in Giamaica, nel 1932 da una famiglia medio-borghese con origini ebraico-portoghesi (e lontani retaggi africani e britannici), Hall arrivò a Oxford nel 1951 come studente, sperimentando sulla sua pelle quel senso di alienazione comune agli abitanti delle colonie che in massa varcarono l’oceano a metà del secolo scorso, desiderosi di raggiungere un’amorevole Madrepatria, salvo poi ritrovarsi respinti e misconosciuti da un’algida, crudele e razzista matrigna. Questo senso di dislocazione e ambiguità portò Hall all’elaborazione complessa e stratificata di un concetto di Identità che non è mai un’essenza ma piuttosto un divenire continuo, un prodotto talora conflittuale di storia e memoria (non immune all’ingannevolezza di quest’ultima), mai fissa e statica nel tempo e nello spazio, reali o fittizi che siano, ma piuttosto sottoposta alla ritrattazione perenne di una «conversazione infinita».

L’installazione ricostruisce dunque la memoria e l’archivio personale di Hall, intersecandolo a più livelli con quelli collettivi della «Black Britain» dagli anni cinquanta ad oggi, attraverso l’utilizzo libero e creativo, ma sempre sapiente e controllato, di immagini e materiali d’archivio, foto e racconti di famiglia, estratti radiofonici e televisivi, di citazioni da autori costitutivi dell’identità culturale britannica, quali William Blake, Charles Dickens, Virginia Woolf e Mervyn Peake, mescolati a brani jazz e gospel. Si esplorano questioni di razza e identità, di cambiamento sociale, storico e politico, passando per eventi cruciali come quelli del 1956 – Suez e l’Ungheria – in seguito ai quali l’idea di un anti-imperialismo socialista democratico germinò: nel 1957 Hall fu uno dei membri fondatori della campana per il disarmo nucleare e nel 1959 fondò la New Left Review con EP Thompson, Ralph Miliband e Raymond Williams, dirigendola per due anni.

Il ’68 fu uno spartiacque importante nel riconoscimento di una comune matrice identitaria in Gran Bretagna, con l’affermarsi definitivo dell’aggettivo «nero» («Black») su altri demarcatori etnici e razziali sino ad allora utilizzati, a designare con esso un preciso contesto storico e teorico, migrante e militante al tempo stesso. Insieme ad una ristretta cerchia di artisti e intellettuali caraibici della sua generazione (da Sam Selvon a Clr James e John LaRose, tutti scomparsi), Stuart Hall divenne così punto di riferimento e portavoce per intere generazioni di migranti di ogni provenienza ed estrazione sociale (prendendo posizioni pubbliche su eventi di portata internazionale, dal Vietnam, al nefasto discorso «Rivers of Blood» di Enoch Powell, all’apartheid in Sudafrica), tanto che per lo stesso John Akomfrah, arrivato a Londra negli anni settanta dal natio Ghana, l’incontro con questo modello fu illuminante e dirompente, avviandolo agli studi culturali e ad una ormai pluridecennale carriera di artista «Black» impegnato, fino al raggiungimento di riconoscimenti importanti nei principali festival cinematografici internazionali, da Toronto a Cannes e Venezia.

Nonostante l’estetica raffinata e il ricercato rigore critico, The Unfinished Converstation prorompe nella sala con fragore, opera intellettualmente stimolante che valica e confonde i confini del documentario e dell’istallazione visuale, tributo appassionato ad un uomo e al contempo ad un’intera generazione di artisti, intellettuali, migranti e militanti. Ma per chi accusa Akomfrah e il suo collettivo di rappresentare un’avanguardia troppo impegnata, criptica e d’elite, non rimane che l’abbandono alla potenza artistica della sua opera, trascendendone per un istante i nessi di senso e lasciandosi penetrare dalla bellezza delle sue immagini, cullare dalla musicalità delle sue voci e lambire dall’infrangersi delle sue onde. Quelle stesse onde che riecheggiano dai versi sussurrati in sottofondo in conclusione, tratti da The Waves di Virginia Woolf.